Le prime inevitabili sguazzate di Eva sulla sponda, provocarono la messa in ala di un grosso airone bianco che si allontanò solenne, ma dopo poche sgambate la pointerina si affiancò docilmente al vecchio cane, come se fra i due fosse sopravvenuta una comunicazione in una lingua per me incomprensibile. Insieme, cominciammo a seguire i movimenti di Zagor, come facevamo ai bei tempi quando lui era il re dell’acquitrino e tutti gli altri al suo confronto apparivano modesti comprimari. Il pointer guadagnò il filo della sponda, e iniziò a procedere lentamente, metro dopo metro annusando i fasci di canne emerse e lottando contro i rovi a lui invisibili che lo attaccavano a tradimento, per poi risalire fra gli alberi sbattendo il naso ad ogni tronco mentre l’acqua dal cielo continuava a cadere 
inesorabile. Lo guardavo con ammirazione sconfinata: è cieco e malato, mi dissi, dove trova ancora tutto quel coraggio? Poi realizzai che per lui i normali parametri di giudizio non servivano a nulla; era una creatura speciale, lo era sempre stato, fin da quando era nato unico maschio in una cucciolata di sei.
La prima ferma però la produsse Eva dopo circa un’ora. Una fagiana sibilò veloce dal frascame, sorprendendomi al punto che potei abbatterla solo di seconda canna facendola cadere sull’argine. La cagnina volò a prenderla e me la riportò malvolentieri, giocandoci un po’ prima di decidersi a consegnarmela.
“A questo punto l’apertura sarebbe anche fatta…”, mugugnai stremato dalla pioggia insopportabile. Quindi deliberai che saremmo arrivati fino ad un certo albero, duecento metri più avanti, e poi saremmo ritornati rapidamente alla macchina facendo il percorso inverso, ma lungo il comodo camminatoio dell’argine e con il fucile in spalla.
