Ma perché si operò in quel senso? Per quale motivo non si tentò una standardizzazione dei due nuclei genetici esistenti ed attestati sufficientemente sul territorio del Regno? I motivi veri non li sapremo mai, ammesso che ve ne siano stati, e ferma restando la correttezza scientifica che portò Solaro alle sole conclusioni possibili, un ruolo importante potrebbe averlo giocato una combinazione fra il
clima culturale che nel ‘Ventotto si poteva respirare, con l’ascesa del fascismo e dei suoi ideali di grandezza nazionale e di autarchia, e la scarsa appariscenza dei lepraioli dell’appennino, forse visti più come i “cugini brutti” dei segugi di Lomellina che come un’entità zootecnica a parte. Probabilmente, ma è solo la mia opinione, se l’insigne tecnico fosse stato un po’ meno rigorosamente onesto ed un filo partigiano in più, con le stesse procedure utilizzate per provare l’unicità di base delle due vere sottorazze italiane, Solaro avrebbe potuto dimostrare che potevano anche esserci i margini per definire due standard anziché uno solo. Ad esempio, la differenza di statura c’era ed era nell’ordine di almeno cinque-sei abbondanti centimetri. A questa si doveva aggiungere la forma e l’attaccatura delle orecchie che variava un po’, ed il rapporto leggermente diverso fra i due segugi, circa la larghezza e la lunghezza della testa dall’occipite al tartufo. Fu come fu, nel 1929 L’Ente Nazionale Cinofilia Italiana, ex Kennel Club, pubblicò nel suo bollettino il primo, provvisorio standard del neonato segugio italiano. La razza era unica, con due varietà di pelo e due di mantello, e tale rimase fino ai lontani anni ottanta.
Questa scelta venne motivata con il fatto che i ceppi erano ancora pochi e che il provvedimento avrebbe arginato i deteriori fenomeni di consanguineità. Ciò era vero, perché la razza si ritemprò, si fuse, si amalgamò come era nelle intenzioni dei padri fondatori; ma questa strada portò anche con sé delle conseguenze ancora palpabili. Ne ho avuto un esempio nel mio canile, e non credo d’essere il solo: un fulvo a pelo raso di grandissime qualità morfologiche, sul cui pedigree risultava essere a pelo forte perché una sua trisnonna materna ed un suo bisnonno paterno erano cani di questo tipo. L’Enci ovviamente prevede una semplice procedura di “correzione” in questi casi, tramite fotografie ed altri passaggi burocratici, però il punto focale è che con la genetica bisogna sempre scherzare poco e che è sufficiente un nonnulla per far cambiare direzione ad un promettente indirizzo selettivo. In ogni caso, la scelta fatta per arginare la consanguineità non dovette rivelarsi bastevole se è vero che proprio il cavalier Luigi Ciceri, uno dei numi tutelari della razza, valutò l’opportunità, negli anni trenta, di importare uno stallone nivernese per far coprire le sue cagne nerofocate a pelo forte e fino alla fine degli anni novanta, in certe linee di sangue, quel cane francese si vedeva ancora tutto, e per giunta molto chiaramente. Il discorso incroci è tuttavia complesso e spinoso, e non
ho né spazio né voglia di farlo qui adesso. Di sicuro però non fu solo Ciceri, che peraltro era dotato di grande preparazione zootecnica, a servirsene. Molti altri lo fecero, spesso a sproposito, e qualcuno ha continuato a farlo anche in tempi non troppo remoti rispetto ai nostri giorni.
Nel 1930 si poté assistere ad una ripresa nelle iscrizioni, e nel 1942 si arrivò a 74 iscritti. La seconda guerra mondiale disciolse la società amatori per tutta una serie di cause ben immaginabili. Però, a gennaio del 1954, su iniziativa di Luigi Zacchetti, il maestro sul cui manuale tutti abbiamo imparato, e Mario Quadri, sommo segugista, gli appassionati risorsero formando una nuova società specializzata, la Società Italiana Pro Segugio, sulle basi ideali della prima e, quando il 28 agosto di quell’anno Zacchetti morì, la società venne intitolata a lui.
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