Le iscrizioni di segugi ai libri tenuti dall’allora Kennel Club d’Italia fino al 1930
potevano contarsi in poche unità, o al massimo in qualche decinata di sparuti e disomogenei soggetti. A tutto il 1909 le iscrizioni erano state 85 in dodici anni, compresi i cirnechi, mentre da questa data fino al termine della Grande Guerra, i segugi registrati al Kennel furono in tutto appena diciotto. Questa era la situazione. Malgrado ciò, nel 1897 prima e nel 1904 dopo, la casa editrice Hoepli pubblicò un volume che si fece carico di una grande responsabilità e che fu più profetico di una palla di cristallo. Mi riferisco a “Il Cane”, scritto da Angelo Vecchio, nel quale l’autore parla esplicitamente, primo caso nella letteratura cinegetica, di “segugio italiano”, lo descrive ed addirittura ne disegna due tavole, diverse nelle due edizioni, di cui soprattutto la seconda impressiona per la grande rispondenza all’attuale standard della nostra razza. Qualcuno, molti anni più tardi, fece girare la voce che si trattava di un disegno ispirato, addirittura copiato, da un quadro del diciassettesimo secolo esposto nel castello di Borso D’Este, tentando di sfruttare questa informazione per dimostrare un’antichità che non c’era. Si trattava di una menzogna. Primo, quel
dipinto non esiste; secondo, nel seicento non c’erano ancora cani con quelle fattezze. La verità è che la tavola venne disegnata da Vecchio prendendo a modello due splendidi segugi di Lomellina, una “razza” formatasi non prima della fine del settecento se non addirittura nella prima metà dell’ottocento, e dall’autore forse privati graficamente degli speroni che quasi certamente i cani dovevano possedere. Ebbene, la tavola di Vecchio del 1904 e la descrizione che egli ne fa possono a pieno titolo considerarsi il vero punto di partenza per la moderna costruzione della razza unitaria nazionale. Nel 1920 un gruppo di appassionati cinofili e segugisti, fra cui De Maddalena, Zacchetti, Ciceri, Solaro, Cajelli, Bonanomi e Marzorati formarono a Lodi la Società Amatori del segugio e del cane da tana. Si trattava della prima società specializzata di stampo segugiofilo e si proponeva di recuperare e valorizzare i ceppi rimasti di origine italiana. La prima cosa che emerse durante le prime riunioni fu la stesura di uno standard che desse la base per l’individuazione di una razza unitaria univoca, italiana appunto. Il compito, manco a dirlo, fu affidato a Giuseppe Solaro. Il geniale cinotecnico piemontese, nel cui studio aveva raccolto decine di reperti ossei appartenenti a segugi di Lomellina ed a segugi dell’Appennino, si mise all’opera analizzando, misurando, rapportando e traendo le conclusioni che le due sole “vere” razze di origine italiana, erano discendenti da un un unico cespite, differendo fra loro solo per elementi di statura e proporzioni, oltre che per qualche altro particolare considerabile marginale. Il ceppo italiano era unico, e unica sarebbe stata la razza.
In sostanza, Solaro, con cristallina onestà intellettuale, compì l’operazione esattamente inversa rispetto ai suoi colleghi francesi. Mentre i transalpini da quattro o cinque gruppi genetici tirarono fuori trenta razze, noi, che di razze ne avevamo poche, ne riducemmo il numero ancor di più.