La corretta comprensione del processo evolutivo unitario del nostro segugio
richiede di compiere un minimo di stringata esegesi per ognuno dei cani catalogati e menzionati dall’Artus, il quale non trascurò di darne delle descrizioni morfologiche. Iniziando dagli ultimi due, un cane primitivo ed una specie di piccolo levriero, il primo elemento chiave è che esulano dalla categoria dei segugi propriamente detti e, mentre il veltro sardo scomparve da sé, il cirneco dell’Etna venne molti anni dopo spostato al gruppo 5 dalla Federazione Cinologica Internazionale su proposta di una Commissione Tecnica e comunque oltre a non essere mai stato un cane da seguita, non ha mai attraversato geneticamente la strada del nostro segugio nazionale. Circa gli altri, del presunto “bracco” di Calabria esistono le prove che pur essendo stata una popolazione canina che ha goduto di una certa diffusione ed apprezzamento in tutto il Mezzogiorno, altro non era che la progenie di alcune coppie di segugi della Lomellina, donati ad una famiglia calabrese di Lungro, nel cosentino, che evidentemente doveva essere particolarmente propensa a far riprodurre i propri esemplari. Il montagnino delle Alpi già ai primi del
novecento non poteva considerarsi un’entità razziale geneticamente identificabile poiché troppe erano state le intrusioni con cani di vario tipo e funzione, andando poi a perdersi irrimediabilmente negli scorsi decenni nonostante le velleità di qualcuno circa un suo possibile recupero.
Rimangono il piccolo lepraiolo dell’Appennino ed il segugio di Lomellina. Qui siamo al nocciolo della questione, poiché il segugio italiano come lo conosciamo noi deriva fondamentalmente da questi due tipi di cani. Potremmo addentrarci in descrizioni morfologiche, disamine strutturali e analisi comparata delle testimonianze documentali con lo standard attuale del nostro segugio, ma finiremmo per annoiarci cercando di dimostrare ciò che ormai è risaputo, provato nonché definitivamente accettato. La cosa importante da tenere presente è che, fino agli anni trenta del secolo scorso, non si poteva parlare né di cinofilia segugistica come la intendiamo oggi, né tantomeno di indirizzi allevatoriali precisi, anche perché non c’era alcun viatico che, tracciandone i binari lo consentisse. Infatti, fin tutto il periodo precedente alla prima guerra mondiale, il segugio era poco diffuso, male utilizzato e peggio considerato, se si pensa a quanto spesso venisse pesantemente discriminato nei calendari venatori e talvolta preso di mira anche dalla poca stampa specializzata esistente.