Le parole di questi due padri della cinologia europea sembrano voler mettere in evidenza come il setter irlandese, già nel secolo scorso, fosse oggetto di amori, rancori e pregiudizi. Nei fatti, nessuna razza da ferma porta con sè la quantità enciclopedica di preconcetti e predicati che hanno gravato, ed in qualche modo gravano ancora, sul setter d’Irlanda. Tuttora, confidare a qualcuno di volere metter su un cucciolo di questa razza può provocare strabuzzamenti d’occhi ed evocazioni di tetri racconti di cacciatori sull’orlo del suicidio o conduttori dalla carriera annientata. In realtà, come più che spesso accade, la colpa quasi mai è del cane. Presumere di gestire una razza come l’irlandese con lo stesso sistema che si adatterebbe ad un onesto ausiliare da riserva domenicale, sarebbe come pretendere di fare una galoppata in campagna cavalcando Ribot: nella migliore delle ipotesi prenderemmo una strizza tale da non voler più vedere un cavallo per il resto della vita. Il problema, naturalmente nasce soprattutto presso i cacciatori di città che spesso costringono il loro cane rosso ad una vita eccessivamente sedentaria per poi pretendere ubbidienza assoluta quelle dieci volte che si decideranno ad andare a caccia, ma è sorto anche fra coloro i quali, esperti seguaci di Artemide, non avevano tenuto nel debito conto la nevrilità e l’ardore del fermatore d’Irlanda. Queste qualità non sono lì per caso: stiamo parlando di uno dei nasi più raffinati e di una fra le fisiologie più evolute dell’universo canino; parliamo di un cane nato per lavorare in ogni condizione atmosferica, costruito per calcare tutti i terreni, creato per perseguire gli uccelli più difficili di tutto il ventaglio della selvaggina continentale, come le grouses o i beccaccini.
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