Zagor vagò nuotando in circoli sempre più larghi, tentando di agganciare quello scampolo d’usta necessario al ritrovamento del germano, finché, lottando tra i flutti non lo raggiunse nell’incastro di rami che attraversava il canale come un ponte. Ma fu quando l’ebbe abboccato che notai come fosse disorientato e preda di una fatica insostenibile. Invece di ritornare verso di me, puntò verso l’altra sponda affaticandosi ancora di più. Allora, con tutta la voce che avevo, lo chiamai per aiutarlo a trovare l’orientamento iniziando ad urlare a squarciagola ed agitando le braccia e il cappello, anche se lui distava da me soltanto pochi metri. Per miracolo, l’espediente funzionò. In qualche modo il cane si accorse di me, riuscì a trovare la direzione giusta e si arrampicò sulla sponda con difficoltà mentre io ed Eva ci precipitavamo ad aiutarlo. Infine, lasciò cadere il magnifico maschio accasciandosi. Lo abbracciai forte mentre la cagna lo annusava festevole, e lui iniziò a tremare 
come se fosse attraversato da una serie di terribili scosse elettriche. Tirai fuori dalla cacciatora il vecchio asciugamani per i cani che porto sempre con me quando caccio sull’acqua, e lo frizionai energicamente sul torace e sulla schiena. Mi resi conto che aveva il respiro breve e le mucose bianche come carta: “Che t’è venuto in mente, vecchio somaro?”, gli dissi con gli occhi lucidi mentre continuavo a strofinarlo e andai avanti così per diversi minuti, finché i tremendi singulti iniziarono a scemare.
Poi pian piano, a passi lenti come anziani compari che si appoggiano l’uno all’altro c’incamminammo verso la macchina, tutti e tre vicini, mentre la pioggia incominciava a smettere e un timido sole faceva capolino fra le nubi.
Era il venti di settembre. A Natale, Zagor se ne andava a caccia per sempre.
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