Non pochi sono i pericoli che minacciano questi inoffensivi animali: primo fra tutti la valanga, che essi evitano spesso servendosi del loro sensibilissimo istinto, ma che sovente ne seppellisce interi branchi, cui seguono i massi che di continuo rotolano dalle vette. Fra gli animali predatori che ne insidiano la vita, ci sono i grossi carnivori, come linci, orsi e lupi nei territori dove sono presenti, ma soprattutto, è l’aquila e talvolta l’avvoltoio a lanciarsi sui branchi, per ghermirne i piccoli. Pure se i camosci non hanno carni né pelliccia particolarmente pregiate, o almeno non quanto, ad esempio, un cervo, costituirono e costituiscono ancora sebbene con tutte le odierne limitazioni, oggetto di caccia che, proprio a causa delle dure difficoltà che presenta, è più che mai resa attraente. Un tempo veniva considerata addirittura uno svago da sovrani, e anche sono ormai trascorse le spericolate imprese di Massimiliano d’Austria, che si dedicava a questo sport con grandissima passione, è ancora vivo il ricordo storico del Re di Baviera, di molti duchi tedeschi e, infine, dello stesso nostro sovrano Vittorio Emanuele II. Tuttavia non furono nobili e teste coronate a incidere sul calo del numero di camosci, bensì tanti comuni cacciatori che si dedicavano con assiduità eccessiva e molesta a perseguire il re della montagna. Difatti, fra coloro che vantano di aver abbattuto il maggior numero di questi animali, si annoverano, oltre ad un certo Marco Colanni, vissuto fra il ‘700 e l’800 e al quale si attribuiscono ben duemilaottocento prede, un altro cacciatore, Pietro Soldini, che in una sola stagione riuscì ad abbattere quarantanove camosci e, ancora, l’austriaco Hans Griochenkung, che ne abbattè complessivamente millecinquecento. le stragi operate nel passato, avevano determinato una preoccupante diminuzione della consistenza della popolazione dei camosci, che è tornata a normalizzarsi solo dopo le misure restrittive che negli ultimi decenni si sono susseguite in tutti paesi dell’arco alpino, compreso il nostro. La sua caccia è stata riportata ad una tenzone nobile e sportiva
in cui misurarsi con questo splendido animale significa anche compenetrare e conoscere la sua dimensione. I cacciatori di camosci devono essere buoni tiratori ed instancabili camminatori, veri esperti della montagna, adusi a tutte le intemperie e ad affrontare ogni pericolo. Tre erano i metodi di caccia di questo animale: in battuta con i cani, all’accostamento e alla posta. Il primo, oggi non più praticato , nè praticabile, veniva attuato specialmente sulle boscose alture prealpine, con l’ausilio di cani da lepre, che si provvedeva a liberare dopo che ogni cacciatore si era appostato nei punti più propizi. Spaventati dai segugi, i camosci fuggivano all’impazzata, passando davanti ai luoghi di posta. Le armi usate erano di solito doppiette con cartucce a pallettoni. poichè la distanza cui in genere si effettuava il tiro, era di non più di una quarantina di metri. Il metodo più difficoltoso, e l’unico praticato attualmente in Italia, è invece, senza dubbio quello per accostamento, che richiede una grandissima esperienza e un ottimo allenamento alpinistico. Anche ai più esperti cacciatori capita di non trovare sempre la selvaggina nelle località da essa solitamente frequentate, per cui spesso, partiti a sera o prima dell’alba, devono percorrere lunghissimi e aspri itinerari prima di poter individuare il branco. Quando ne sono in prossimità, hanno gran cura nel cercare di evitare ogni rumore, talvolta si accostano alla preda avanzando carponi e, se ancora la luce dell’alba non rischiara il cielo, se ne restano nascosti dietro un cespuglio o un grosso masso
. Quasi sempre, però, i camosci, dotati di un odorato finissimo, avvertono ugualmente la presenza dell’uomo e allora il capo del branco, è il primo a porsi in agitazione, raspando il terreno con lo zoccolo ed emettendo un caratteristico fischio di allarme, che è subito seguito da una fuga generale. La vittima destinata è di solito l’individuo più anziano e solo se il colpirlo è impossibile, si ripiega su qualche altro elemento. I fucili adoperati sono, ovviamente, armi rigate. II terzo metodo, laddove è consentito, è la caccia alla posta o all’aspetto, per la quale sono richieste eccezionali doti, soprattutto di pazienza e di resistenza fisica, per sopportare, talvolta, per lunghissime ore, sia le basse temperature, che l’assoluta immobilità. I cacciatori prescelgono per l’appostamento i valichi e i passaggi obbligati dei camosci. Non sempre l’accortezza di porsi contro vento può risultare efficace, poichè questo può improvvisamente cambiare, portando agli ani-mali l’odore
dell’uomo, e togliendo così ogni frutto alla paziente attesa. La caccia alla posta risulta particolarmente efficace in vicinanza di giacimenti di rocce salnitrose. dove i camosci, avidissimi di sale, si portano in grandi branchi. Oggi non è più permesso, ma una volta dove mancavano giacimenti salini, si usavano diversi sistemi per attirare gli animali. Si poteva, ad esempio, costruire una piramide con sassi piuttosto spianati, fra i quali si spargeva del sale da cucina che, con l’umidità della notte, si scioglie e affiorava all’esterno, in luogo della piramide di sassi potevano, tuttavia, usarsi anche lastre, o blocchi di cemento, cosparsi di sale e fissati al suolo. I Tedeschi usano, invece, interrare nei luoghi reconditi, molto umidi e riparati da abbondante vegetazione, cassette ripiene di sale. La caccia al camoscio , ai tempi d’oggi, si è ridotta più ad una tradizione che ad una vera e propria attività sportiva, a causa delle fortissime limitazioni temporali, spaziali e di capi. Ma non mancano nelle case dei più appassionati cacciatori i trofei che testimoniano un glorioso trascorso di caccia.
CAMOSCIO: IL SIGNORE DELLE VETTE
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