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“Un libro scritto non da me, ma dal tempo. Io, l’ho solo ordinato cercando di dare un filo a una sorta di diario cedendo alla tentazione del ricordo personale, che inevitabilmente da esso scaturisce e con esso s’intreccia.” …
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Pag 2] Per scrutare la lontananza e andare nei particolari del paesaggio, inforcai il cannocchiale sul naso. Mi soffermai a focalizzare quelle borgate arroccate sui crinali delle colline. Mi accorsi, ahimè, che a distanza di quasi un anno, a nome e per conto dell’abusivismo protetto dagli uomini e disdegnato dalla natura, esse erano cresciute in espansione. C’è anche un abusivismo di montagna, che nessuno ferma. Se ne parla e se ne fa ammenda solo quando qualche casa scende a valle. Ispezionai il basso sottostante per vedere se c’era la possibilità di un percorso al- ternativo per la discesa, oltre a quello che abitualmente percorrevo. Diressi il cannocchiale verso l’unico poggio. Tre piccoli volpacchiotti entravano e uscivano dalla loro tana. Assicuratesi che nei dintorni non vera alcun pericolo, si diressero, con fare sospettoso verso una sagoma che a me sembrò essere una volpe adulta: probabilmente la mamma. Non riuscii a focalizzarla, giacché era all’ombra . Anche perché il cannocchiale che tenevo non aveva un grosso potenziale. Lì si acquattarono e vi rimasero per un bel po’. Fino a quando non rientrarono nella tana. Quella sagoma rimase lì, immobile. Incuriosito, divallai di una settantina di metri, per sincerarmene. Prima di arrivarvi sentii un intenso odore di urina, tipico della presenza di più volpi. Quando vi arrivai, non volevo credere ai miei occhi. Il cuore mi si frantumò e la stretta che subì fu terribile. Provai una forte sensazione di freddo: divenni un pezzo di ghiaccio. Piansi dentro, perché dai miei sacchi lacrimali non uscì nulla. Si raggelò anche il mio cervello. La sagoma era proprio mamma volpe: morta, distesa sul fianco destro, con gli occhi aperti e così belli tanto da sembrare ancora vivi e che mi diedero la sensazione di avere voluto guardare, per l’ultima volta, la dov’era l’ingresso principale della sua tana. Non so descrivere quello che ho provato in quel momento e dopo. Un rivolo di sangue le usciva da sotto il treno posteriore. La voltai, non era ancora irrigidita. Non ebbi dubbi. Un colpo di fucile le aveva procurato seri danni, al costato destro, fino a dissanguarla. E lei per amore dei figli era quasi riuscita a raggiungere la propria tana, lì dove sapeva di avere lasciato i suoi cuccioli: rimasti orfani per colpa di un bipede così definito dalla scienza un umano. Forse, non vi era entrata per non essere ingombrante da morta. La esaminai attentamente. Rimasi di sale quando le vidi tutti gli otto capezzoli umidicci. Per conferma li toccai quasi tutti. Uno lo strizzai dall’alto in basso; di latte ne uscì poco. Segno tangibile che i volpacchiotti erano usciti a suggere il latte della mamma. [section_title title=Pag 3] Già qualche mosca le svolazzava intorno. Chissà se si resero conto che era morta! Sparare a un animale a caccia chiusa, è il più vile atto di bracconaggio che si possa compiere. Mi venne una rabbia che non dava spazio a nessuna giustificazione e indulgenza. Anche perché gli animali piangono. Questo è inconfutabile. Scienziati e documentaristi hanno dimostrato e sono tutti concordi che gli animali, in quanto esseri viventi, esprimono come noi stati d’animo, emozioni e mimica facciale. Taluni sono andati oltre. Con le risonanze magnetiche, hanno avuto tangibili conferme. Sì, quei volpacchiotti, secondo me, avranno pianto. E tanto. Ciononostante dovetti pensare a tutte le possibili soluzioni ponendomi, fra me e me, domande e risposte. I cuccioli si erano intanati, intimoriti della mia presenza che di sicuro avevano avvertito, prima che io vi arrivassi. Ispezionai il posto. Nel raggio di sei passi c’erano l’entrata e l’uscita principale, più altre tre laterali di dimensioni diverse. Opere d’ingegneria. Non distante un piccolo fossato. Lì la deposi, coprendola con uno spesso strato di terra. Con sopra tante pietre. Onde evitare che i figli la esumassero. Fatta la degna sepoltura, restava cosa fare dei cuccioli. Sarebbero morti di fame o prede di cani randagi. Toglierli dal loro habitat sarebbe stata la decisione peggiore. Decisi per un’adozione a distanza, consapevole che i cuccioli in lattazione non hanno lunga vita in natura. Mi sedetti su un masso per riflettere, perché qualcosa non tornava. Mi sovvenne che la famiglia delle volpi e di tipo monogamico, quindi padre e madre collaborano insieme per la crescita dei piccoli. E questo fin quando non avviene lo svezzamento. E incominciai a chiedermi: perché la mamma, il cui compito è di non lasciare mai soli i piccoli e di allattarli, si era allontanata dalla tana quando è il padre che va a cacciare per cercare il cibo per l’intera famiglia? E se la caccia è stata abbondante, quando è in prossimità della tana, lo rigurgita. Su questo non avevo dubbi, perché rientra nell’affermazione di Willima Shakespear: “Le volpi hanno un loro codice”. Al padre era capitata la stessa sorte, o era nei dintorni a controllare quello che stava accadendo? Sperai nella seconda ipotesi. Erano le ore undici e zero cinque minuti. Quel giorno abbandonai la voglia di arrivare in cima. Divallai ancora finché fame e stanchezza non si fecero sentire. Mi sedetti a mangiare il gustoso panino, amorevolmente preparato da mia moglie Rosanna. Bevvi un sorso d’acqua. Ripresi a camminare fin quando arrivai al fuoristrada. [section_title title=Pag 4 »