“Un libro scritto non da me, ma dal tempo. Io, l’ho solo ordinato cercando di dare un filo a una sorta di diario cedendo alla tentazione del ricordo personale, che inevitabilmente da esso scaturisce e con esso s’intreccia.”
Francesco Materasso
” ORFANI ”
Era un lunedì del mese di maggio. Quel giorno volevo salire in cima al massiccio del Reventino (9): a millequattrocentoventimetri, attraverso uno dei più sinuosi percorsi che esso offre.
Per arrivarci, da passo Acquabona (10) occorre un’ora e più di cammino. Una buona dose di agilità e prestare attenzione a dove si mettono i piedi per evitare rovinose cadute.
L’altimetro mi dava milleduentocinquantametri. Per arrivare alla meta mancavano un centinaio di metri o poco più: i più ripidi. Mi sedetti. Appoggiai le spalle a un leccio cespuglioso*. Un posto ove abitualmente sostavo, non per prendere fiato ma per godermi l’ampio scenario che, solo da quel punto, si offriva agli occhi. Mi tolsi il berretto. Dopo essermi passato la mano sulla fronte per asciugarmi il sudore, alzai gli occhi. Innanzi, un quadro armonioso e gioioso, d’incomparabile bellezza che soltanto la natura riesce a mostrare, con un’infinita varietà di arboreti e di colori. Fermo e silenzioso riesco a cogliere gli ultimi scampoli della primavera che ancora riempiva l’aria di fragranze delicate. A riflettere con calma e serenità. Sono questi i momenti in cui ci si rende conto di vivere realmente e piacevolmente. Di esistere, di essere presente nel mio mondo, di notare altre meraviglie che mi erano sfuggite. E mi accorgo che, se osservo con attenzione, smetto di pensare. Attorno a me armonia; nell’intimo una tranquillità interiore senza pari. Entro nella realtà che mi sta davanti. Nient’altro esiste. Solo il silenzio, dentro e fuori. Che odo di più quando, a tratti, interrompo il respiro. Questo significa realmente godere il silenzio che si ha attorno, immergendovisi. In quel silenzio che ti fa veramente sentire la silenziosità della natura. È come se entrassi in un teatro. Il pensiero si ferma, tace, si resta entro se stessi. E finiscono i patimenti e le seghe mentali. Si va in catarsi contemplativa. “L’uomo è dove è il suo cuore, non dove è il suo corpo”, così scrisse Gandhi. Fui svegliato dalla silenziosa contemplazione, è il caso di dirlo, da una coppia di colombacci che sfrecciarono da una non distante folta chioma di un ippocastano*. Alla mia vista s’inerpicarono vogando con le ali su, nell’alto del cielo. Abbagliato dalla luce del sole, se avessi avuto il fucile, non sarei riuscito a tirare nemmeno un colpo. In alto il gracchiare di un folto stormo di cornacchie e il fischio di una poiana, concorsero a rompere la solenne quiete della montagna. E così l’insorgere del vento che incominciò a sollecitare il fruscio delle querce e dei castagni sottostanti. Fra le foglie del cespugliato, quasi sulla mia testa, sentii un debole squittio. Gli occhi mi andarono a un moscadino* che camminava piano su un ramo sottile. Appena si accorse della mia presenza iniziò a scendere, quasi a volersi nascondere. Esso è uno dei tanti topolini di montagna. Che non sia stato proprio lui a entrare nella leggenda come quel “topolino partorito dalla montagna”. Alludo alla favola di Fedro, ripresa poi da La Fontaine.