Quell’anno riprovai un’emozione che da molto tempo non avevo più assaporato. Le congiunture meteorologiche che avevano imperversato su tutt’Italia durante l’intero corso dell’autunno portando disagi e disastri, erano state foriere anche di qualcosa di buono. Naturalmente si tratta di un “buono” relativo al nostro mondo, un “buono” di nicchia; un “buono” per intenditori, come recitava un vecchia pubblicità degli anni settanta. Date le abbondanti e continue precipitazioni, sulle campiture si erano formati ben presto degli specchi d’acqua molto estesi che, mentre in condizioni normali avrebbero avuto vita breve, durante quella stagione avevano mantenuto ed ingrandito la loro estensione fornendo pastura e ricetto al selvatico considerato la Magna cum Laude delle lauree cinofile e, stante l’estrema difficoltà che presenta il tirargli, aggiungerei anche cacciatoresche.
Avevo capito che sarebbe stata un’annata ricca di incontri con il nostro folletto un mattino di ottobre, quando in cui mi capitò di trovarne sei, di cui due incarnierati e quattro padellati con tanto di saluto baciato. La cosa interessante però, non era stato il numero di beccaccini levati, bensì l’osservazione della progressiva ma celere presa di coscienza dell’esistenza di questo selvatico da parte di Antea, una giovane pointerina, veloce come Ribot, longilinea come una gazzella ed aggraziata come una principessa delle fiabe.
Caccia vissuta: la Fanciulla e il Folletto
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