Adesso lui si tiene molto più vicino: la corsa ne ha indubbiamente calmato gli ardori fisici, ma non di certo quelli caratteriali. Alza e abbassa la testa, annusa ogni pianta, incanna ogni bava d’aria che riesce a captare, sparisce e poi ricompare come un fantasma sonante dal sipario delle piante. Mentre ne osservo il bel movimento, rifletto: è giovane, ma ha tanta stoffa e di certo diventerà un eccellente cacciatore quando avrà terminato di collezionare le sue esperienze.
La risalita sembra volgere al termine. Vediamo ricomparire il cielo grigio di pioggia ed io sento scendere copioso il sudore. Guardo l’orologio: mezzogiorno. Siamo a caccia da due ore e nel carniere abbiamo solo l’inseguimento di un capriolo e un pò di delusione per la zona che sembrava proficua, e invece noi selvatici buoni non ne abbiamo incontrati nemmeno per sbaglio. Sbuchiamo finalmente all’aperto e ritroviamo l’erba dell’oliveto, anche se ben distante dal punto di partenza dove ci attende il fuoristrada. Sento una goccia bagnarmi la mano destra; guardo in su, come se potessi controllare cosa sta succedendo ed una seconda mi centra in pieno viso.
“Piove..”, annuncio gravemente.
“Beh, oramai finiamo il ballo..”, risponde l’amico.
“Si, e magari battiamo questa porzione di campo; ci sono macchie e rovi intorno all’oliveto: non si sa mai..”, aggiungo fatalista.
Giunti allo scoperto, il bracco ricomincia ad allargare la cerca. E’ generoso ed appassionato, e nonostante lo sforzo sostenuto ancora trova risorse per mantenere alto il ritmo della cacciata. Lo guardiamo veleggiare verso alcuni cespugli in mezzo ad una radura ai margini dell’oliveto: la testa alta, il trotto ritmato anche se non allungato e l’aria circospetta, come se sentisse qualcosa nell’aria. il fragore di un tuono ci scuote dal misurato torpore in cui l’amico ed io siamo scivolati. “Volevi ballare? Ora si balla…”, dico a Salvatore ingrugnito per più d’un motivo. Goccioloni freddi iniziano a piovere su di noi. Foco riappare da dietro un rovo e taglia il campo in diagonale. Lo vediamo rallentare, girare il capo verso la sua destra e abbassare il garrese protendendo il collo in avanti. Stacco la Bernardelli dalla spalla dove era appesa a canne in giù e la sento fredda e bagnata. Salvatore si ferma, e tre secondi dopo si ferma anche Foco.
Il naso puntato verso un grosso cespuglio e gli arti flessi, il bracco guarda un punto davanti a sé che solo lui può conoscere.
“E’ fermo! “, dico più che altro a me stesso. Mentre la pioggia cade rada ma costante ci avviciniamo al cane sempre immobile e ci disponiamo ai suoi due lati.
“Forse è meglio farlo guidare..”, dice Salvatore sussurrando.
“Non occorre, il cane è alle prime armi e romperà da solo la ferma, vedrai. Tieniti pronto, comunque, perché potrebbe davvero esserci qualcosa in quel cespuglio..”.
Non voglio in nessun modo spingerlo a ridurre i tempi di ferma. Un giovane cane deve consolidarla sempre più, e solo quando sarà padrone dei suoi mezzi e dei suoi nervi si potrà indurlo, se lo si desidera, a caricare il selvatico. Tuttavia, questa è una pratica che non ho mai seguito. Con tutti i miei cani, ho sempre preferito aspettare lo svolgimento naturale dell’azione, ritenendo che forzare i tempi significhi intromettersi in una dinamica che appartiene solo ai due protagonisti, e giammai all’uomo armato.
Il tempo di finire la frase è appena sufficiente per sentire il frullo ovattato insinuarsi fra le gocce d’acqua e per vedere una grossa fagiana innalzarsi rapida dal cespuglio. Due colpi, e l’uccello piomba sull’erba dieci metri davanti a noi, in un gradone sottostante. Foco si lancia al riporto e in pochi istanti lo vediamo risalire con la fagiana in bocca.
“Bravo Foco! Bravo…porta!”, gli dico per abitudine, e il bracco si avvicina ai miei piedi lasciando cadere la fagiana. Lo abbraccio, e lui ricambia snasandomi la barba.
Adesso siamo felici, e tutto, anche il tempo grigio e uggioso, ci appare come una festa magnifica alla quale siamo grati di poter partecipare.
Mezzogiorno di…Foco
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