Leggendo le sue opere, balza subito all’occhio una disillusione, una sorta di amarezza in apparenza insanabile…
Chi come me sta avendo la fortuna di andare avanti con l’età, ripensa intensamente sia alla propria vita sia alla esperienza di caccia cacciata. Viene naturale passare ai bilanci e, soprattutto, ai paragoni. Io, che non mi considero per niente uno scrittore bensì un semplice raccontatore, ho sempre intinto la penna nel calamaio della realtà e della verità. E credo di avere reso un buon servizio ai miei cari e affezionati lettori e a me stesso, perché leggere e scrivere della nostra infinita passione è divenuto per me cibo dell’anima, che continua a fare ardere dentro di me il sacro fuoco di Diana anche quando sono sdraiato su una poltrona.
Un tempo la fauna aerea e terrestre era abbondante e varia, perché aveva di che cibarsi e dove ripararsi. Ogni habitat era tutto un olezzo di resine, di fiori, d’erbe, di fieno e di stallatico. Dai fiumi e dai ruscelli correvano acque gorgoglianti, cristalline, dove ci si poteva specchiare e dissetare. D’estate gli incendi non percorrevano interi territori. Il rapporto diretto con una natura incontaminata, la compagnia di un cane, l’incontro con colleghi cacciatori veramente galantuomini e con la gente più umile era una vera e propria sublimazione. E cosa non da poco: per completare un cucciolone bastava una sola stagione venatoria.
Oggi siamo al contrario. Le campagne, specie quelle di pianura, sono appestate di anticrittogamici, di pesticidi, eccetera. Sono maleodoranti: la selvaggina stanziale, quella vera, è scomparsa e quella di passo fa toccata e fuga. Boschi che scompaiono per mercinomio di legname. Lo spazio cacciabile è stato maldestramente ridotto. Tutto è cambiato, a nome e per conto del modernismo, del consumismo, della cementificazione, della transazione, del turismo venatorio e, perché no, anche della globalizzazione. E mi lasci anche dire, che anche nel nostro ambito troneggia la volgarità comportamentale e culturale, che smarrisce, che ti fa sentire fuori tempo e luogo.
Leggendomi ha colto nel segno. Sì, sono un disilluso, fortemente incavolato. Da un pò di anni, nel mio solitario andare, senza risparmiare passi e fatica, avverto che il respiro della terra si sta facendo sempre più affannoso, morente sempre più gravemente ammalata. Un avvertire che genera, disgusto, acredine e malinconia, che porta ad una sempre più orrida e sconvolgente delusione. E pian piano la sua morte mi sta entrando nel cuore. Questa è la ragione per cui mi sento un estraneo, mi sono quasi appartato perché colto dall’angoscia, dall’impotenza e dalla rabbia perché sono in totale disaccordo con i molti modi di come oggi si concepisce la caccia e di come si esercita, col beneplacito delle associazioni venatorie buone solo a maneggiare tessere. Uno stato d’animo insanabile per uno che non riesce a recidere il cordone ombelicale con la terra e con tutto quello che ancora oggi, in quantità minore, riesce a donarmi e alla quale devo tutto quello che sono, come a mia madre Maria. Ecco il motivo precipuo per il quale sono passato dalla parte della beccaccia e del cane, dalla parte dei più deboli. E’ nella mia natura, nella evoluzione del mio pensiero e dei miei sentimenti. Non posso farci nulla. E’ lecito ripensare, per rivedersi e modificarsi. Per la beccaccia in special modo, perché “… le voglio bene, ma tanto bene assai”, perché “… è nu piezz’e e core”.
Essere in dissonanza col coro non mi spiace, non mi preoccupa. Credo che neanche S. Uberto protegga più l’universo dei cacciatori, perché continua a non fare ammenda dei suoi peccati. Mi è dato intuire, giacché la chiesa prevede l’istituto delle dimissioni, che si è già “dimesso” non avendo fatto, sia i cacciatori sia chi li rappresenta, alcuna ammenda dei propri peccati. E pare che il più accreditato per sostituirlo sia un certo San Nonlosapevo.