Quella mattina di ottobre ero destinato a sopportare una delle scarpinate più faticose ed emozionanti della mia carriera di cacciatore. Tutto nacque da una padella. Jago aveva incrociato con Virna un campo ad erba medica che terminava con un bel filare di gelsi a ridosso di un canale, oltre il quale si estendeva una vastissima campitura di grossi zolloni puntuti. Nei pressi del filare, il maschio entrò in emanazione, rallentò leggermente, tagliò a sciabola l’aria a destra poi a sinistra, quindi si fermò con la consueta granitica saldezza. Mi
avvicinai annaspando fra le zolle e quando mi trovavo a circa trenta metri, si alzò una starna che frullò rapida verso l’orizzonte. Tirai, sudato e scomposto, e padellai la fuggitiva indirizzandole la botta dietro. Rapido per come potevo provai a doppiare il colpo, ma nonostante la buona corazzata del sei l’uccello era ormai troppo lontano. Vidi i cani scattare all’inseguimento scendendo nel fosso, risalendo e precipitandosi nell’immensa distesa arata, e con gli occhi rossi per la rabbia e la concitazione li richiamai, li misi al guinzaglio e iniziai a scrutare fra quelle zolle grandi come onde alzate dal mare di mezzogiorno, e scure uguali. La tentazione di tornare a casa era forte, ma la mia anima di umbro testadura ancora una volta riuscì ad avere il sopravvento. Entrammo nelle zolle. I pointer, partiti secondo la loro natura, dovettero immediatamente inserire le ridotte e cominciammo così, tutti e tre insieme, ad avanzare arrampicandoci tra quei minacciosi pinnacoli di creta. Mi resi presto conto che si trattava di una specie di lotteria, in quanto non potendo battere il campo in tutta la sua estensione dovevamo sperare di incontrare la selvaggina che stavamo cercando sulla “fascia” da noi percorsa, o nelle sue immediate vicinanze.
STARNE DELLE MIE BRAME…
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