Era trascorsa più di un’ora da quando avevo deciso di lanciare me e i miei incolpevoli amici in quell’avventura da pazzi. I cani sembravano i nordici del capitano Amundsen tra i banchi dell’Artico, con la differenza che ora l’inferno era di creta ed il caldo il nemico peggiore. Dissi a me stesso che indietro non si tornava, che avremmo percorso tutto il campo fino alla fine, o che comunque avremmo provato. Non so per quanto tempo arrancammo fra le fatiche più improbe, sudando ogni goccia d’acqua contenuta nel corpo; maledissi cento volte il momento in cui avevo deciso di inoltrarmi in quella trappola e mille volte mi voltai indietro per guardare il fosso da cui eravamo partiti, irraggiungibile ormai come un miraggio nel deserto. Sentivo già gli artigli gelidi della disperazione accarezzarmi la schiena, quando notai Virna che riemergendo da una fossa fra le zolle annusava in modo attento una bava d’aria. Non le diedi peso, ma la cagna insisteva, tendeva il collo, virava decisa mettendo in allerta anche il compagno. Dopo qualche secondo entrambi caddero in una ferma inequivocabile. Con il cuore in gola, le mani sudate, la vista annebbiata dalla fatica, cercavo di scandagliare la porzione di spazio davanti a me. Dopo un attimo, partì una coppia di starne a non più di tre metri dai
cani. Ne incannai una e tirai. La vidi cadere, mentre l’altra poteva essere ancora buona. Riprovai toccandola sull’ala destra e l’uccello si abbassò lontano, nella vastità di terra rialzata. Jago, con le residue forze rimastegli, scattò al recupero mentre Virna mi riportava festante la prima girellando come al solito un poco, prima di consegnarmela. Li abbracciai felice come un bambino e mentre lo facevo sentivo la fatica svanire, la sete scomparire e il caldo, come per magia, dissolversi.
STARNE DELLE MIE BRAME…
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