Che il giorno seguente sarebbe stato freddo, lo si intuiva fin da quando un tramonto terso e colorato lo aveva annunciato ben prima che le previsioni meteo della televisione lo confermassero ufficialmente. Si prevedeva una mattinata da inverno nordico, soleggiata ma di ghiaccio, di quelle che invitano gli animali migratori a muoversi e ad attivarsi con inusuale frenesia.
L’intenzione era fare una “scanalata”, ossia una di quelle passeggiate venatorie compiute seguendo il corso di uno o più canali, dove, vagheggiando l’incontro di pregio, c’è comunque modo di divertirsi nel vedere i cani lavorare sull’acqua e magari fermare qualche gallinella o recuperare un frullino birbante dall’altra parte del canale.
Alle sei meno un quarto anticipai la sveglia, misi sul fuoco la moka preparatami da mia moglie la sera prima, e sbocconcellando un biscotto diedi un’occhiata al termometro appeso fuori dalla finestra. Meno quattro. Mi rendo conto che non è normale, nel cuore di dicembre, lasciare il tepore del letto coniugale per andare a cacciarsi in un incubo di guazza ghiacciata, di fango tentacolare e di freddo assassino.Tuttavia,“vitiis nemo sine nascitur”, diceva Orazio. Nessuno nasce senza difetti. Scesi in giardino e feci uscire dal loro box le truppe anfibie: il vecchio Zagor, pointer “acquatico” per eccellenza e la giovane, incredibile Pennyblack, una labradorina nera dotata di passione feroce e capacità natatorie superiori a quelle di una lontra. Il mio programma prevedeva la partenza da un certo canale, e, seguendone il corso, il capolinea ad un largo invaso irriguo poco discosto dal suo argine, dove ogni tanto, con un po’ di fortuna, m’era capitato d’incontrare qualche pattuglia di germani in sosta.
I cani si catapultarono giù dall’auto e iniziarono a cercare fra le erbe ghiacciate delle rive. La mattinata era splendida, pareva uscita da un naif olandese con quei vividi colori verdi e gialli di campi e colline, attraversati dal nastro ceruleo del canale riflettente un cielo purissimo. Non c’èra vento, ma la temperatura vicina allo zero consentiva ugualmente ai cani di compiere il loro lavoro sfruttando l’inevitabile differenza di temperatura fra l’usta della selvaggina e l’ambiente circostante.
Il freddo graffiava. Ammiravo i cani che cacciavano nell’acqua gelida con una punta di commozione e di rimorso, chiedendomi come facessero e soprattutto perchè, senza poter fare a meno di riflettere che un essere umano, per un suo simile forse non lo avrebbe fatto mai.
Dopo circa mezz’ora, il pointer entrò in ferma. Trattenni la labrador, non ancora perfettamente pronta a rispettare il lavoro dei fermatori, e mi disposi nel punto migliore per un’eventuale stoccata. Dopo un paio di minuti di attesa silenziosa, il volo rumoroso di un grosso maschio di gallinella d’acqua infranse il nastro del canale: tiro facile, botta sicura e l’animale sbattè nell’acqua al centro del fiume. Liberai Pennyblack: la cagna balzò sopra le canneggiole e si tuffò al recupero riportando la gallinella in meno di un minuto. Ma arrivata vicino ai miei stivali, la prodigiosa labradorina non resistette alla tentazione di scrollarsi proprio mentre le stavo prendendo la preda dalla bocca. L’abluzione indesiderata d’acqua gelida mi punse il viso come se l’avessi tuffato in un roveto, e mandai Pennyblack a quel paese con una vociata. Ma lei, guidata dall’istinto infallibile di cui ogni cane è dotato, sapeva che ero contento del suo bel lavoro e per risposta mi saltò addosso cercando le carezze. Non avevo voglia di toccare peli ghiacciati e bagnati, nemmeno con il tramite dei guanti, ma per me elargire quella gratifica era più di un dovere. La coccolai un pochino, la complimentai e le allungai un pezzettino di quel formaggio di cui andava ghiotta.
In capo ad altri venti minuti di cammino, fui chiamato ad una prova di tiro inaspettata. Messe in ala dal rumore prodotto dai cani, due femmine di germano si alzarono ad una trentina di metri di metri da noi. In prima canna avevo piombo dell’otto, ed in seconda un sei di quelli seri. Scaricai entrambe le botte e mentre la seconda cadde sul colpo, l’altra andò via gravemente ferita. Zagor e Penny si lanciarono in una nuotata frenetica, arrivarono di concerto sull’anatra morta e la labrador l’abboccò lesta ritornando da me; il cane invece proseguì verso la sponda opposta e prese a pistare come un segugio. Intuii che voleva raggiungere il capo perduto e lo lasciai lavorare senza richiamarlo. La cagna nera gli si affiancò dopo pochi minuti, ed insieme batterono quella selva di canne e rovi ghiacciati che predominava in quel tratto di canale. Accellerai il passo sulla sponda accompagnato dall’ansia, e strinsi forte il fucile. Nonostante il freddo, iniziai a sudare. L’adrenalina scatenata dal bell’incontro fornì a me ed ai cani una spinta eccezionale. Dopo circa mezzora, o forse meno, un centinaio di metri davanti a me, vidi riemergere dal frascame la labrador con l’anatra in bocca, seguita da Zagor. Li richiamai con quella sensazione di dolce magone mista ad euforia che solo chi è cacciatore cinofilo può capire, e feci ampi cenni con le braccia per favorirli nella mia localizzazione.
La cacciatora cominciava a pesare, ma era un peso solo materiale, perchè lo spirito era invece lievissimo in ossequio a quel curioso paradosso ben noto a chi va a caccia e che postula l’alleggerimento della cacciatora al rimpinguarsi del il carniere. Ma la faccenda non era ancora finita. Prima di arrivare all’invaso, Zagor riuscì a scovare, perchè di vero covo si tratta quando si ha a che fare con quest’uccello, altre due gallinelle d’acqua. Una la padellai per una mossa incredibile del selvatico che invece di involarsi a destra o a sinistra, decise di schizzare nella mia direzione, mentre l’altra la catturò viva direttamente Pennyblack, che non ero stato abbastanza rapido a richiamare e trattenere sulla ferma del pointer.
Arrivammo al cratere. L’invaso era leggermente rialzato e discosto una cinquantina di metri dal letto del canale. Legai i cani e mi avvicinai con la massima circospezione per non mettere in ala la selvaggina che eventualmente vi stesse sostando. Pian piano risalii il bordo esterno del laghetto e spiai furtivo tra le erbe: la strategia era quasi perfetta, perchè in effetti un maschio di germano e la sua femmina stavano galleggiando sull’acqua, ma dal lato opposto al mio, e molto vicini alla riva. Era necessario spostarsi. Senza emettere un fiato legai entrambi i cani, e mi avviai a circoscrivere il perimetro del cratere per guadagnarne la sponda giusta. Il germano maschio era enorme, con un collo da cigno ed una testa allungata e apparteneva di sicuro ad un contingente migratorio proveniente dal nord Europa. Lo rimirai solo un altro attimo intento a nutrirsi con la sua compagna, quindi mollai i cani e sparai: uno spruzzìo d’acqua e piume turbò la superfice dell’acqua, e subito dopo potei osservare il risultato ottenuto. Qualcosa non era andato perfettamente, perchè galleggiava solo la femmina. Forse era stato lo sbilanciamento nel mollare i cani per poter sparare, o forse avevo proprio padellato il bel maschio, e vergognosamente direi, considerato il tiro quasi a fermo. Penny raggiunse l’anatra e me la riportò grondante d’acqua di lago. L’abbracciai, questa volta, e la coprii di complimenti mentre a me stesso ne rivolgevo qualcuno di meno, soprattutto perchè la tattica adottata non era stata delle più sportive. Tuttavia, non c’era altro mezzo per aver ragione di quelle anatre, e in fin dei conti la caccia è caccia.
Al ritorno, sfruconando in mezzo a delle stoppie, il vecchio pointer compì un altro piccolo prodigio, e una grossa fagiana frullò radente alle cime erbose. La padellai di prima canna, e solo con un po’ di fortuna riuscii a fermarla con la seconda botta. Pennyblack volò al recupero e ritornò dopo qualche secondo con l’uccello fra le fauci, felice come una bambina. L’accarezzai, e le diedi l’ultimo pezzo di formaggio che avevo, sotto lo sguardo di rimprovero di Zagor. Il vecchio leone aveva ragione, ma non sapevo fosse l’ultimo. Tuttavia aveva capito bene che il merito principale era suo e che io lo sapevo: la Penny era solo una ragazzina, mentre lui era un grande guerriero. Allora cambiò espressione e, come sempre, mi perdonò di cuore.
Sono passati ormai tanti anni, ma ogni tanto quel giorno fortunato mi torna in mente vivido come fosse ieri, e l’accolgo come assumerei una pozione balsamica e tonificante a rimedio delle inevitabili disillusioni della vita. Il grande Zagor se n’è andato ormai da tempo a caccia in un luogo dove non ci sono orari nè calendari, e per la Pennyblack è già incominciato l’inesorabile viale del tramonto.
Restano i ricordi, gemme magnifiche che né il tempo, né il corso degli eventi, potranno mai cancellarmi dall’anima.
Quel giorno sul fiume
Il nido del falcoCondividi: