La partita entra nel vivo. La nebbia che sembrava essersi diluita con le particelle d’un sole ormai quasi meridiano, ripiomba sul bosco come una pesante coperta invernale. Apache e Pippo tengono la posizione con maestria, composti e attenti come si conviene a veri professionisti dell’insidia alata, e un minuto dopo l’altro nuovi giochi prendono vita e forma sopra di noi, in un carosello di calate rapide, sorvoli alti e concentrici, oppure passate veloci a fil di pianta. Spesso vincono loro, qualche volta vinciamo noi. Tra le nebbie e le querce, tiri spettacolari di Stefano, Emanuele e Daniele rubano al cielo qualcuno dei suoi nobili signori in un duello a cui mette fine solo la consapevolezza che per quest’oggi la coltre nebbiosa non si diraderà. Iniziamo a smontare la trincea. I due piccioni ritornano giù.
Emanuele prende il suo Pippo dal rullo per riporlo nel trasportino, e il piccione gli salta sulla spalla strofinandogli contro il collo il capo piumato. Sono colpito. Non immaginavo potesse stabilirsi questo afflato cameratesco con un animale così distante da noi sul piano tassonomico. Un universo nuovo mi si para innanzi. Un mondo affascinante, che in una vita di caccia solo marginalmente ho avuto il modo e l’opportunità di esplorare. Daniele mi parla di Apache, così chiamato per una piumata bianca al centro della testa, e facendolo traspare una passione infinita verso questa disciplina venatoria che è anche, e direi soprattutto, naturalismo, etologia, e desiderio incessante di conoscere e sperimentare ogni volta emozioni nuove in mezzo ad una Natura che, nonostante tutti i nostri smartphone, auto elettriche e intelligenze artificiali, continua ad esserci madre benevola, intransigente maestra e inesauribile fonte di vita.






