“Wat religen you’re?”, mi chiede il talebano con la lunga barba all’ingresso della grande Moschea di Teheran, in un inglese peggiore del mio. Lo guardo negli occhi e rispondo: “Catholic”. Ho un’assicurazione sulla vita, ma spero non debba servire. Si girano teste avvolte da turbanti, mi guardano pupille penetranti come lame, poi il talebano sorride e mi dice:” Dats gud. Verigud!”. Rifiato. Mi tende la mano e si presenta, poi toglie le scarpe che aveva appena rimesso e fa segno di volermi accompagnare dentro. Sfilo le mie, le metto in un sacchetto di plastica, e calpestando un enorme bukhara le consegno all’usciere in cambio di un gettone con un numero in Parsi scritto sopra. Inizia così l’episodio più intenso di un viaggio indimenticabile. La moschea mi accoglie con i suoi tappeti, le sue volte a specchio, le sue grate dietro le quali il Corano detta l’unica
legge che da queste parti conti qualcosa. Mohammud mi consegna un rosario islamico e mi fa compiere i gesti rituali per entrare nel modo giusto in quel luogo. “Cosa vuol dire quello che stiamo recitando?”, gli chiedo prima continuare. “Dio è grande; Dio è misericordioso; Dio è compassionevole..”, risponde lui. Concordo, e dunque continuo. L’Iran per me è stato anche questo, ma non solo.
Magico Iran
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