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Racconto: IL RIPOSO DI FERRO

Copertina
22 Aprile 2023 di Mario Sapia
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(Fiorino d’Argento alla XXXIX Edizione del Premio Firenze)

Il suo giaciglio era più scomodo del solito. Aveva cambiato posizione così tante volte che sentiva la testa pesante come se fosse stata riempita d’acqua. Sollevò il naso, respirò una vena d’aria appena entrata dall’esterno e si alzò. Allungò il collo all’aperto e strinse lievemente il lume degli occhi scrutando ai lati, come faceva ogni volta prima d’uscire. Era freddo quella notte, ma forse fuori avrebbe trovato sollievo all’inquietudine che lo stava divorando morso a morso. Sentiva il peso degli anni. Non sapeva quanti fossero con precisione, ma aveva iniziato a capire che il tempo passava anche per lui da quando aveva preso la zannata dalla bestia sul greto di quel torrente. Una bestia grossa, pensò lui, che mai avrebbe  vinto sui riflessi che fino a quel giorno credeva ancora d’avere. Invece la bestia l’aveva colpito su una coscia sbalzandolo in aria e facendolo precipitare nell’acqua schiumosa. Da allora, nulla era stato uguale a prima. Aveva provato a tenere il comando nell’inseguimento, ma il dolore legava subito i suoi tendini con un filo rovente e gli faceva perdere terreno fiaccandolo senza scampo.

Tuttavia, per qualche tempo ancora la sua parte aveva continuato a farla lo stesso. Le sue narici serbavano l’afrore della bestia meglio di tutti gli altri, e se c’era qualche osso di quelli duri era sempre lui quello chiamato a roderlo per primo. Ma tutto ciò apparteneva al passato, e ormai da qualche autunno sentiva di non essere più lo stesso. La zampa offesa lo faceva zoppicare pesantemente, i denti gli dolevano, e quando d’inverno la montagna si copriva di neve anche le ossa lanciavano fitte, acute come i morsi delle bestie femmine con i piccoli dietro. Sentiva d’avere il fiato corto, e talvolta avvertiva strani tremori attraversargli i muscoli facendo vibrare anche il pelo color grigio ferro, da qualche stagione sempre più opaco e fuligginoso. Oramai da troppo tempo, quando il branco partiva a cercare la bestia il suo posto l’occupava quel giovane baldanzoso dal pelo a strisce come un gatto che con un’occhiata intimidiva gli altri e aveva avuto almeno tre compagne fino ad allora, in una fila di onori una volta riservati a lui. Al mattino presto, quando arrivavano i carri che brontolano, quelli con gli occhi dietro e davanti, il capo vi faceva salire i suoi compagni che latravano e si alzavano sulle zampe per attirarne l’attenzione, e lui guardava in silenzio i cancelletti aprirsi uno ad uno e tutti quelli del branco sfrecciar fuori; poi sentiva il capo gridare dei richiami e allungare qualche morso con quella lunga lingua sottile che teneva fra le zampe. Vedeva i carri che partivano ruggendo, e ne seguiva con l’orecchio la voce finché poteva, fino a quando questa si affievoliva del tutto e ritornavano i fischi dei merli e del vento che muoveva le fronde. Fermo, guardava ancora per alcuni istanti la foresta davanti a sé, poi abbassava la testa e tornava verso il suo letto, più zoppo e più stanco di prima. Da almeno due stagioni di caccia era sempre così. Il capo non apriva più il suo cancello e certe mattine non lo salutava nemmeno prima di partire. Solo, passava le sue giornate sdraiato sulla paglia con il muso appoggiato all’ingresso della tana e gli occhi aperti a guardare la curva da cui sarebbero tornati i carri del capo con il branco e le bestie prese. Pensava alle sue avventure passate, come quando affrontò un animale molto cattivo che nessuno aveva avuto il coraggio di sfidare. Com’era grande quella bestia! Il suo occhio brillava di rabbia fra i rovi, il suo muso pareva non finire mai da quant’era lungo, e portava due zanne talmente grosse e acuminate che lui mai ne aveva viste di uguali. L’enorme animale irsuto era partito alla carica col grifo levato per spazzarlo via dalla sua strada e guadagnare il bosco, e lui era rimasto fermo fino all’ultimo istante guardando il giallo delle zanne che avanzavano rapide, mentre la branche spinose si aprivano ed il suolo tremava sotto le sue unghie. La bestia staffilò l’aria col suo orrido muso sgranando la pupilla furente e lui fece appena in tempo a saltare di lato, e poi con uno scatto repentino a prenderla per un garretto. Che forza possedeva quella bestia! Aveva rotato su se stessa nel tentativo di stritolarlo, ma le era rimasto attaccato con quei denti allora duri e aguzzi come le pietre del fiume. La bestia l’aveva sbattuto sui tronchi con facilità, ma lui non aveva lasciato la presa resistendo al dolore ed alla paura fino all’intervento del capo, che non l’aveva mai lasciato da solo in momenti come quello.

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