Sentir parlare Federica dei suoi cani e della cure ed attenzioni che dedica loro, a me rammenta più la narrazione che una mamma fa dei suoi figli che quello di una comune allevatrice. In lei, la femminilità non è stata vivaddio sopraffatta dalla caccia, e la passione per i cani è corroborata ed alimentata da un insuperabile istinto materno. Ogni cane, ogni cucciolo ha una storia, delle prospettive, e una “tabella” personale tutta sua che deve necessariamente essere seguita. E lei come una mamma li ama tutti con la medesima intensità, ma per ognuno individuando il modo giusto. Nonostante ciò, o meglio proprio per questo, voglio chiudere l’intervista facendole rivestire la parte di Artemide, ruolo che a Federica Falcioni si addice benissimo e che si è guadagnata in anni di selve irte, sangue, spari e latrati.
Federica, in una situazione ambientale oramai largamente mutata e in parte anche compromessa, in cui l’antropizzazione sta cedendo il passo alla “cinghializzazione”, come intravede il domani della caccia al re della macchia?
” Come dicevo vivo il mondo della caccia al cinghiale già da molti anni e questa attività venatoria si è trasformata completamente. Certo, nelle zone in cui vi è una caccia programmata e gestita dalle squadre, il contenimento dei danni e del numero di animali è tenuto a bada. Si collabora con la Polizia Provinciale cercando di tenere sotto controllo la pressione dei cinghiali con le uscite dei selettori o con le battute di contenimento, laddove vengono rilevati dalle autorità danni a colture. La difficoltà invece, sta nel gestire la specie nelle zone non gestite, o addirittura chiuse, tipo oasi o parchi regionali o nazionali.
Ricordiamoci sempre che l’attività venatoria, e in particolare la caccia al cinghiale è diventata fondamentale per il contenimento della specie ma che senza i nostri cani e il loro insostituibile lavoro gestirla sarebbe ancora più complicato.”