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QUANDO MUOIONO GLI DEI

Il nido del falco
26 Novembre 2020 di Mario Sapia
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Non ci credo. Di certo è una di quelle bufale che da un po’ di tempo hanno preso il vizio di girare nel web, opera di spiriti burloni e truffaldini. Ma cosa gli è balzato in mente adesso, di diffondere una panzana più grossa d’una montagna. Questo mi dicevo ieri sera mentre arrancavo fra le news, scartabellavo fra i comunicati stampa e sentivo un alito d’angoscia salirmi fino al pomo d’Adamo. Questo speravo, a questo mi aggrappavo. Però, in un angolo del mio malfunzionante raziocinio serotino intravedevo, seduta e vestita a lutto, una prèfica che singhiozzava sommessamente e si copriva il volto con le mani. Quelle come lei piangono lacrime finte, ma quando ci sono, purtroppo il morto è vero. E allora, alla fine, ciò che non volevo vedere l’ho visto anch’io. Diego Maradona era morto. Mi sentivo stranito, incredulo, circumsesso da una vaga sensazione di nausea, ed era come se avessi preso un gancio a freddo appena salito sul ring. Maradona, il “pibe de oro”, la “mano de Dios”, il più grande calciatore di ogni tempo, da un momento all’altro per un sortilegio non c’era più. Come in uno di quei film casalinghi di una volta girati col super otto, ho rivisto in pochi minuti la mia adolescenza, la mia giovinezza , una parte importante della mia vita scorrermi innanzi. Mi rivedevo ragazzo con gli amici davanti alla tivvù nel 1982, l’anno del mondiale di Spagna, e d’un tratto nello schermo appariva lui. Era come se qualcuno avesse di colpo alzato il volume dell’apparecchio. Il pubblico delirava impazzito, roboava d’un rumore quasi belluino, e tutto lo stadio acquistava sembianza di nave spaziale in procinto di salpare verso un mondo sconosciuto e sconfinato. Toccava il pallone, e noi toccavamo il soffitto della sala; dribblava uno, due, tre avversari e a noi si fermava il respiro. Nessuno aveva mai visto niente di simile, e si che di partite e di campioni gli esperti se ne intendevano; ma non occorreva esserlo per capire che quel giovanotto argentino basso e robusto era molto più di un campione: era un essere sovrannaturale dotato di occhi magnetici, di carisma assoluto, di naturale leadership sugli uomini e sulle cose. Era un dio pagano reincarnato Diego Maradona, e lui sapeva di esserlo. Ascese al soglio più alto dell’Olimpo quando sedusse Partenope, e fra immense folle osannanti portò Napoli in paradiso vincendo lo scudetto, lasciando attoniti gli squadroni del nord e piantando una stele con un riferimento temporale assoluto nella storia del calcio e dello sport: l’era prima e quella dopo il suo avvento. Dall’Olimpo discese in Messico come un mercurio alato, quando partendo dal centrocampo perforò le retroguardie di sua maestà britannica, ne affondò le difese annichilite e consegnò ai cuori di tutto il mondo il più grande goal di ogni tempo. Oggi molti piangono in strada la sua scomparsa, ma all’epoca per quel capolavoro piangemmo tutti. “Diego è capace di fare cose che nessuno può eguagliare. Ciò che io faccio con un pallone, lui potrebbe farle con un’arancia”, ebbe a dire una volta Michel Platini. Ma abbiamo visto che non si trattava solo di sovrane qualità tecniche. Maradona è stato, ed è tuttora, un fenomeno di massa, un feticcio, un idolo terreno capace come nessuno di scatenare gli aspetti più estremi delle passioni. Ha ispirato poeti, ha incantato sirene, ha distrutto titani, ha dato gioia e speranza a migliaia di ragazzi divorati dalla disperazione e dai topi, ma che al solo vederlo nel balbettante televisore di una favela prendevano una palla di stracci e toccavano con un dito un pizzico di felicità. Ha voluto bene a tutti, ha detto stamattina Bruno Pizzul, meno che a sé stesso. E’ vero. Figli con decine di donne diverse, anche se solo cinque quelli ufficiali, eccessi, impeti, trasgressioni pericolose con la cocaina ne avevano minato la salute psichica e fisica in modo irreparabile, ma nessuna di queste cose è riuscita a scalfire l’aura di sovrannaturalità che la sua persona potentemente emanava. Dovrei usare il tempo presente in realtà, perché gli dei non muoiono mai. Casomai tornano su, in quell’Olimpo che è la loro casa naturale, e da lì osservano noi poveri mortali che li ricordiamo, forse sorridendo, forse, chissà, compatendoci un po’.
Il premio Oscar Paolo Sorrentino gli ha dedicato una drammatica citazione nel suo, per me, film più bello: “Youth, la giovinezza”.
Rivedo quelle scene, ripenso alla mia, di giovinezza, che mi ha abbandonato per sempre, e mi chiedo con un velo sugli occhi che giovane triste sarei stato, se non avessi avuto Maradona.


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