Ricordo bene la mia prima apertura di caccia. Tutto era iniziato fin dal pomeriggio precedente nel giardino ombroso dei miei nonni, disteso accanto a Diana, una dolcissima pointer bianca e marrone. Guardavo la cagna senza parlare osservandone il bel profilo, gli occhi fondi color nocciola e le macchie di pelo scuro spruzzate sul bianco come polvere di cacao sulla panna. Lei ogni tanto mi allungava una nasata, emetteva un sospiro e si riassopiva mentre venivamo accarezzati dal leggerissimo grecale che ogni pomeriggio d’agosto porta un’illusione di refrigerio agli estremi territori della penisola infuocati dal solleone. Pensavo al giorno dopo, alla promessa del nonno di portarmi a caccia per l’apertura, e immaginavo Diana mentre esplorava le colline gialle e bianche alla ricerca delle quaglie africane che come ogni anno avevano scelto in gran numero le pendici calabre per affrontare una stagione che a casa loro sarebbe stata insopportabile. Galoppavamo veloci l’uno accanto all’altra, e mi fermavo di scatto quando anche lei lo faceva, impietrita da un odore che solo il suo naso poteva percepire. Sentivo e poi vedevo la quaglia frullare, allungarsi sulle cime della stoppia e cadere dopo il colpo. Allora, insieme a Diana, correvo felice a prenderla per riportarla al nonno, ancora avvolto dall’odore della cartuccia esplosa.
Solo i richiami di mia madre che ci radunava per andare in spiaggia riuscirono a distaccarmi dall’immaginifica contemplazione in cui ero immerso. Quel pomeriggio mi accorsi per la prima volta, e senza saperlo, di come tutto a questo mondo sia inesorabilmente relativo: il mare, che nel mio cuore di bambino aveva sempre rappresentato l’apoteosi del piacere, per un misterioso sortilegio non aveva più alcun sapore. L’acqua non la sentivo nemmeno pur essendoci immerso fino al collo, e anzi ne scrutavo le increspature della superficie nella speranza di vedere qualche uccello veleggiante per trasfigurarlo in quaglia o in cotorno con la forza della mia fantasia; la sabbia evocava forme di calanchi riarsi e gravidi di selvaggina, mentre il cane lupo di una famigliola attendata duecento metri più in là assumeva le forme della mia prodigiosa Diana, a cui tornavo col pensiero ad ogni battito di ciglia, come un innamorato con la sua bella lontana.
Era il 1971. Dopo quasi cinquant’anni ricordo ancora tutto, molto meglio che se lo vedessi in un film o attraverso delle foto, perché nessuna proiezione è in grado di riprodurre i profumi ed i sentimenti, e non v’è fotografia che possa rendersi tanto efficace quanto quella scattata con l’anima.
Anche quest’anno, alla vigilia dell’apertura, passerò il pomeriggio con i miei cani.
Li immaginerò l’indomani scorrendo per le fertili pianure toscane a fermare fagiani, quaglie e qualche starna di voliera che per quel giorno vestirà ancora la sacrale dignità di preda ambita che indossava una volta.
Come ogni anno, sovrapporrò a questa immagine quella foto di tanti anni fa. Farò in modo che la sua essenza vi si compenetri assumendone i contorni e scoprirò una volta ancora la potente forza vitale che emana quel vecchio, indelebile scatto dell’anima, quando per un pugno di ore incantate le tenaglie delle quotidiane tristezze che mordono ogni uomo allenteranno la loro stretta perenne.
Allora avrò in mano l’unica chiave che conosco per far finta che tutto sia rimasto com’era, e berrò un altro sorso di quel buon elisir, distillato dolceamaro di entusiasmo e nostalgia, che ristora la mente, risana il cuore e prolunga la gioventù.
In quel momento, sarò tornato di nuovo accanto alla mia Diana a sognare l’apertura del giorno dopo, distesi insieme al fresco di un grande albero avito e immaginando corse e ferme, come se il tempo fosse rimasto ad aspettare.