Mattino di dicembre, poco dopo le sette e mezza. Ero accucciato in mezzo alle canneggiole che crescono abbondanti sulle sponde di un laghetto di bassa collina. Rispettando in pieno le previsioni del tempo che la tv ci aveva ammannito la sera prima, l’aria era acuminata come un punteruolo ma pulita e sgombra da ogni traccia di umidità.
Avevo scelto una buona giornata da dedicare alla mia unica concessione annuale alla caccia da appostamento, malgrado le rasoiate di qualche folata malandrina che mi faceva abbassare il naso sotto la sciarpa. Mi ero sistemato comodamente, sfruttando la pendenza della sponda dell’invaso e la generosa copertura di un rovo andato a crescere solitario fra una folla di giunchi ed erbe. Al suo interno, avevo ricavato con il coltellaccio una specie di piccola grotta in cui mi ero nascosto, pur mantenendo un’ampia visuale dell’orizzonte sull’altro lato del laghetto. Mi accompagnava la mia Pennyblack, una labrador che avrebbe potuto insegnare a nuotare ad un pesce e che sulla selvaggina era implacabile come un predatore naturale. Intelligente come e più d molti somari a due gambe, sensibile, entusiasta, Penny era tutta nera, fatte salve le fugaci apparizioni dei suoi denti bianchissimi. Dunque anche per questo non avrebbe destato sospetti negli eventuali sorvolatori del laghetto se non a breve distanza, quando però, vivaddio, sarebbero già entrati nel raggio di tiro del mio sovrapposto camerato magnum. Le allungai una carezza guantata e lei ne approfittò immediatamente per richiederne delle altre strofinandosi come una gatta ed immergendo il muso sotto il giaccone maremmano.