La gestione degli animali selvatici è un processo molto complesso, guidato dalle interazioni tra le
dinamiche naturali, il processo decisionale e il comportamento degli stakeholder (cacciatori, agricoltori, opinione pubblica in genere). Il problema è che ognuna di queste componenti è in grado di modulare in modo indipendente le tendenze delle popolazioni di ungulati, il che significa, che nessuna di esse può essere trascurata quando si pianificano le azioni di gestione o di controllo. Spesso nel nostro Paese si tende, invece, a procedere in modo tradizionale, schematico (invece che adattativo) o sull’onda “emergenziale”. Le Amministrazioni pubbliche tendono ad imporre norme, piani venatori e piani di controllo non sufficientemente condivisi ed efficaci (basti pensare alla imposizione dei “metodi ecologici”, ridicoli almeno per questa specie), gli agricoltori vedono solo una parte del problema (i danni colturali) e trascurano del tutto il fatto che questo fenomeno è strettamente legato al diffuso “arretramento” dell’agricoltura dalle aree interne, gli ambientalisti denigrano la caccia ed incolpano i cacciatori, contribuendo così da decenni a diffondere un’errata percezione dalla caccia nelle società urbane (attività depauperante il patrimonio naturale, non etico utilizzo degli animali selvatici, ecc.), percezione che nel tempo ha contribuito a disincentivare il reclutamento dei nuovi cacciatori e, in definitiva, il loro consistente calo numerico. Posto che la caccia rappresenta il maggiore fattore limitante (anche se insufficiente) per le popolazioni di cinghiale, quale scenario si prospetta per il futuro? L’efficienza dei cacciatori di cinghiale dipende dalla struttura del paesaggio ed è correlata positivamente allo sforzo di caccia, ovvero al numero dei cacciatori, ai giorni di caccia, ecc..; ma sappiamo che da trent’anni a questa parte lo sforzo di caccia si è fortemente ridotto, e questo è un fatto oggettivo. È vero che tra le diverse forme di caccia quella nei confronti del cinghiale, per ora, risente meno di altre della riduzione dei praticanti, tuttavia, la prospettiva di un progressivo declino è ineludibile. Di conseguenza è facile prevedere che la caccia sarà sempre meno efficace nel limitare l’impatto della specie. Il rischio reale è che venga travolta la sopravvivenza della già mal ridotta agricoltura delle aree interne italiane, e sia ancor più sotto minaccia la sicurezza dei cittadini sulle strade, la conservazione di specie rare vulnerabili, l’economia di importanti settori zootecnici per la possibile diffusione di gravi patologie (la Sardegna è purtroppo un esempio tangibile), ecc.. Per far fronte a questa preoccupante prospettiva, anziché polemizzare ed incolpare inutilmente i cacciatori (come avviene in Italia), in diversi Dipartimenti francesi, a fianco delle azioni di pianificazione faunistica, si pianificano anche misure per facilitare il reclutamento dei giovani cacciatori. E, non si trascuri, in quel Paese il calo nel settore venatorio è decisamente inferiore al nostro.
Quando la fauna diventa un pericolo: uno studio dalla Federcaccia
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