Per ognuno di noi ci sono stati e ci saranno dei maestri. Sono coloro i quali ci forniscono un esempio di vita o di lavoro, oppure sono quelli che ci instradano, iniziandoci ad un’arte o ad una professione e aprendoci le porte di conoscenze che diversamente non avremmo mai raggiunto, o lo avremmo fatto in maniera del tutto inadeguata e sicuramente caduca.
Di beccacce ne avevo viste molte sin da ragazzino fra i boschi dell’Aspromonte e della Sila, quando accompagnavo mio nonno ed i miei zii sottoponendomi a sacrifici inenarrabili pur di godere della vista di un cane in ferma o dell’urlo di scovo di un segugio. Ho masticato tante esperienze dietro quei cani, ma solo più tardi ho compreso che fin tanto che non avessi avuto un cane solo mio, un amico sincero con cui instaurare un dialogo e costruire un legame, non sarei mai stato un buon lettore di quel grande libro che la natura mi apriva ogni volta che ne cercavo il contatto.
Oggi, quei due amici che tanto mi hanno dato e con i quali ho condiviso piccole e grandi avventure, mi guardano dal paradiso che, sono certo, è aperto anche alle bestie, e da lassù, se provano ancora solo la metà dell’affetto che mi hanno dimostrato su questa terra, tenteranno in ogni modo di fornire buone ispirazioni a chi adesso occupa il posto che una volta era stato loro.
L’amica di cui vi parlerò, fu la mia maestra a beccacce. Si chiamava Denny, una pointerina bianconera. Quando la presi, Denny era un autentico disastro. Avevo letto l’annuncio: “Vendesi causa inutilizzo pointer femmina, due anni, ottima genealogia”. Telefonai da un cabina ( niente cellulari all’epoca..) al numero indicato e mi precipitai a vedere la cagna dopo aver fissato l’appuntamento per il tardo pomeriggio di una splendida giornata di fine giugno. Lei era nel suo box con la
coda fra le gambe e gli occhi che denunciavano una paura indistinta verso tutto ciò che la circondava. Era nevrile, bella anche se non bellissima, e nervosa come se si aspettasse l’arrivo di chissà quale catastrofe da un momento all’altro. Non era stata mai portata a caccia e la sola selvaggina che aveva conosciuto consisteva in alcune quagliette di gabbia che il suo allevatore le aveva disposto in un campo poco distante. I presupposti per non prenderla c’erano tutti, ma il prezzo era basso e la cagnina aveva nello sguardo qualcosa d’indefinibile che, dopo di lei, non ho mai più visto trasparire dagli occhi di nessun cane che ho avuto. In macchina, una vecchia ma rombante Alfasud, non ebbi cuore di metterla nel bagagliaio e la lasciai entrare nella parte posteriore dell’abitacolo: con mia sorpresa, Denny si accucciò sul tappetino dietro il posto di guida e non si mosse fin quando non arrivai a casa, che all’epoca era una villettina nel Valdarno di cui occupavo il pianterreno e che disponeva di un giardinetto ombroso dove tenevo già una segugia di razza beagle.
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