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Cinghiale: l’assedio

Il nido del falco
23 Febbraio 2017 di Mario Sapia
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L’allarme arriva da quasi tutte le province del Centro-Nord dello stivale italiano. Dal Lazio, i selvicoltori e gli agricoltori della provincia di Viterbo, attoniti dai continui assalti che i cinghiali provocano a noccioleti e castagneti, sono costretti ad assistere alla perdita del frutto dei sacrifici e al vilipendio del lavoro a causa dei grifi famelici di migliaia di bestie affamate, le quali escono dalle viscere del bosco durante le notti e attaccano senza pietà tutto ciò che è commestibile.

Nel roccioso Abruzzo la protesta è arrivata in Giunta Provinciale, con le righe di un comunicato in cui, in alcuni casi, si paventa addirittura pericolo per l’incolumità delle persone e si stigmatizza senza mezzi termini la mancanza di un complesso di regole che sia adeguato a qualcosa che non sta più nell’alveo dei cicli naturali.

Dalla Toscana poi, i numeri suonano impressionanti: sarebbero oltre trecentomila i cinghiali allestrati nel cuore delle foreste regionali vincolate in buona parte da parchi cinghialewnaturali inattacabili, da cui muove l’esercito di bestie nere in grado di provocare ogni anno danni dalla quantificazione imponente. Andiamo avanti: in Veneto, terra fertile e morbida, frutteti e campi sono presi d’assalto senza requie e senza che nessuno possa far nulla di più di quel che fa. In Liguria, la situazione è talmente pesante che addirittura l’assessore regionale alla caccia ha sentito il bisogno di pubblicare a mezzo stampa una “lettera aperta” in cui dichiara che i mezzi adottati fino ad ora per contenere le popolazioni di cinghiali si sono rivelati insufficienti e addirittura inadeguati a contrastare gli scempi che le bestie fanno di coltivi, manufatti, orti e perfino, talvolta, aie di case.

Potremmo continuare, ma il ritornello sarebbe sempre il medesimo.

Si deduce come lo sviluppo abnorme delle popolazioni di suidi debba essere fronteggiato con nuove soluzioni, la cui individuazione spetta senza dubbio agli organismi preposti dagli enti locali e nazionali, i quali, si sa, lavorano meglio quando tengono nel conto dovuto le informazioni che solo i cacciatori di cinghiali possono utilmente fornire. 

Tuttavia, provando ad impegnarci in una meditazione artigianale sull’argomento, alcuni elementi potremmo essere in grado di focalizzarli anche noi, che Enti ed Organismi non siamo, al di là di scontatezze quali recinti elettrici e dissuasori vari,  barriere che certe volte funzionano, cert’altre volte no.

La prima domanda che vien da porsi deriva da una cogitazione di natura autocritica: non sarebbe opportuno cercare di foraggiarli un po’ meno, questi cinghiali? Ciò li costringerebbe di più a reinserirsi in una catena alimentare naturale che ne ridurrebbe senz’altro il tasso di riproduzione, in ossequio ad un meccanismo assolutamente  infallibile, intuitivo, previsto dalla Natura e osservato in mille e mille casi, il quale postula minore induzione ai processi riproduttivi quando minore è la disponibilità trofica.

Poi si potrebbe riguardare il calendario venatorio sul cinghiale, magari allungandolo in maniera appropriata e consentendo alle squadre di cacciarlo almeno fino alla fine di febbraio, se non anche oltre. Sarebbe, è chiaro, una regola da applicare solo alle regioni che presentano problemi seri e reali da eccesso di popolazione.

Tuttavia, debbo dirlo, entrambe le strategie si rivelerebbero null’altro che dei palliativi se non si mettesse il dito al centro della piaga, ossia l’impossibilità di cacciarli nel cuore dei parchi e delle aree a protezione integrale, la cui intoccabilità è la vera spelonca degli irsuti devastatori. E’ fondamentale che certe idolatrie fuori moda vadano estirpate con la luce della logica e della scienza, perchè quand’anche i cinghiali venissero cacciati tutto l’anno, troverebbero sempre laggiù la zona franca, l’asilo politico, il maniero inattacabile col ponte levatoio sempre ben sollevato a proteggerli dopo la ritirata. Questo è il punto focale, da preparare con cura e portare all’attenzione di chi deve decidere. Si lavori di concerto con forze ambientaliste davvero, come siamo noi cacciatori, si coinvolgano le autorità di vigilanza e le rappresentanze amministrative, senza alcuna paura di inopportunità politica perchè non si deve mai aver timore quando si è nel giusto. E chi grida allo scandalo venga condannato a rifondere i danni causati dalla bestia, oppure, in alternativa, a provvedere di persona al reimpianto dei coltivi distrutti, armato di vanga, fil di ferro e stivalini di gomma.

Vedrete che silenzio…


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