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CACCIA E LETTERATURA: LA PENNA DI ARTEMIDE

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23 Settembre 2016 di Mario Sapia
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Sensazioni di eguale intensità ma colorate a tinte diverse sono evocate da Luigi Ugolini002Ugolini, altro grande autore, anch’egli avvocato nonché giornalista per “Diana”, drammaturgo ed intellettuale impegnato, di almeno un ventennio più tardo di Chianini anche se la sua produzione migliore resta inscritta negli anni trenta, decennio che vede la sua piena maturità anagrafica e letteraria. E’ di quegli anni infatti “Storie di caccia in palude e in collina”, “Storie di vita selvaggia”, “Il nido di falasco” ed il celebre “Musoduro, memorie d’un bracconiere” scritto sotto lo pseudonimo di Giulio D’albenga. Ma di lui ho sotto gli occhi un gioiello: la copia tre volte autografata e dedicata ai propri figli de “La lupa”, raccolta di novelle di caccia e pesca  edita nel 1942 per i tipi della Società Editrice Internazionale. “La lupa”, che dà il titolo al libro ed è la prima delle novelle, narra una storia sconvolgente iniziando con le parole di un vecchio cacciatore di maremma: “Son vecchio e ho una convinzione: non vi sono animali buoni, né animali cattivi: vi sono animali e basta!”  E’ la vicenda di tre cacciatori, fra cui il vecchio che racconta, che in un giorno d’inverno escono a caccia dei lupi che avevano fatto strage di agnelli, e s’imbattono in una tana in cui c’erano tre lupacchiotti. I tre decidono di catturarli vivi mettendoli in un sacco e portandoli a casa. Iniziano così alcune delle pagine più inquietanti che la letteratura venatoria abbia mai offerto. Ugolini è meno attento di Chianini alle tematiche sociali, ma forse sopravanza Ugolini003l’illustre collega nella profondità con cui riesce a cogliere gli aneliti della natura descrivendoli con una semplicità disarmante, che tutto sommato non si discosta da quella di Turgenev, il maestro russo a cui abbiamo fatto cenno poco prima. Il tratto è più asciutto rispetto a Chianini, a volte più ironico e disincantato, ma l’interpretazione del periodo e del lessico non differisce molto quanto a fluidità e qualità evocativa. C’è un passo magistrale che mi piacerebbe far “assaggiare” ai lettori e si tratta della descrizione di Leonetto, il guardiacaccia protagonista della novella che s’intitola proprio “Il Guardia”: “ Di mezza statura, quadrato, solidamente in gamba malgrado i suoi ottant’anni suonati, duro di faccia con due occhi chiari e tondi come quelli delle civette; calva la testa, ogivale, a prova di martello; folte le sopracciglia, i baffi bianchi pendenti come quelli di un granatiere napoleonico…Inesorabile coi ladri di legna e coi bracconieri. Non conosceva che un solo diritto: la forza; che un solo argomento: il fucile. Se il ladro fuggiva e lui non poteva arrivarlo, sparava, naturalmente, con un certo ritardo…..ma, insomma in modo che il piombo frizzasse…..Come cacciatore non sparava che a colpo sicuro; non usciva mai con più di dieci cartucce; non mirava, non accompagnava, imbracciava e basta; sparava così come il selvaggio lancia la freccia…Non ho mai visto tirare né a un tordo, né a un merlo; le sue unità di misura erano lepre, starna e beccaccia. Se il suo cane gli puntava una quaglia, lui imbracciava, la teneva sotto mira, poi riabbassava il fucile. E a me che lo guardavo ad occhi tondi, diceva, ridendo: “Giurammio! Ma se è poco più di una passera!”.

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