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CACCIA E LETTERATURA: LA PENNA DI ARTEMIDE

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23 Settembre 2016 di Mario Sapia
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AragoNon v’è espressione dell’intelligenza umana che non si sia interessata alla caccia o che da questa non sia stata toccata. La plasticità di bronzi e marmi, i colori di tele, ceramiche, affreschi ed arazzi e perfino le divagazioni del pentagramma hanno rappresentato l’occasione ed il veicolo per esprimere emozioni legate a questo nostro primordiale, incoercibile sentire.
La letteratura, la più semplice ed insieme la più incomprensibile dell’empireo tersicoreo, non è mai rimasta indietro e tanti suoi devoti di ogni tempo e paese hanno spesso inserito scene venatorie fra le pagine scritte, pur senza l’intenzione di renderle prioritarie o caratterizzanti rispetto alla storia raccontata. Anzi, in molti degli esempi più belli, la caccia interferisce poco con la logica dello svolgimento narrante. Tuttavia è lì, raccontata con varia maestrìa, con diversa calibratura d’approfondimento, con ondivaga competenza tecnica, a seconda della vocazione e della pratica dello scrittore. Accanto a queste scene “ospiti”, esiste però tutta una letteratura dedicata che ha visto la sua maggiore diffusione ed il suo culmine fra la metà dell’ottocento e gli ultimi anni sessanta del novecento.
Tutto ciò non è argomento di cui sia facile tracciare una panoramica che abbia pretesa di accettabile completezza soprattutto nelle poche pagine di un articolo, e non sarò certo io quello che potrà ragionevolmente pensare di riuscirvi, nemmeno per sommi capi. Prendiamola allora come un caffè fra amici, durante il quale vengono scambiate quattro chiacchiere sull’onda di un comune interesse senza alcuna pretesa divulgatoria: ci divertiremo di più e, forse, ci annoieremo di meno.
“Ho cercato di condurvi per mano attraverso steppe, foreste vergini, in mezzo a lave nere …vi ho fatto passeggiare al mio fianco da un continente all’altro…vi ho presentato gli uomini dalla pelle color di rame del Brasile, i negri dell’Africa, i gialli delle isole Molucche e della China…ho meditato su tutto ciò in mezzo ad immensi pericoli, ora sotto la mazza zelandese, ora a fianco del crish avvelenato del feroce malese…”
E’ Jacques Arago che parla: l’autore di “Caccia alle bestie feroci” un piccolo volume di cui possiedo la prima edizione italiana, pubblicata da Edgardo Sonzogno nel 1884.
Pochi conoscono Arago ed ancora meno sono coloro i quali hanno avuto occasione di leggere qualcuno dei suoi scritti mirabolanti e spesso infarciti di quella carica drammatica ispirata dall’elaborazione postromantica, ben presente in tutte le opere e le narrazioni del diciannovesimo secolo. Si tratta di un coraggioso viaggiatore francese nato alla fine del settecento, che ad appena vent’anni mise in spalla lo zaino e prese a viaggiare in tutta l’Europa meridionale ed in Africa del nord, armato solamente di taccuino, di matita e di uno spirito d’osservazione fuori dal comune.
Nel 1817, grazie a qualche conoscenza altolocata nell’ambiente governativo, Arago ottenne la possibilità di imbarcarsi sull’Urania, una nave esploratrice tesa a circumnavigare il globo con la missione di raccogliere informazioni. Il suo scopo era quello di prendere quanti più appunti e schizzi relativi a popoli, usanze ed animali sconosciuti fosse possibile. Il suo scritto spazia dalla caccia al boa constrinctor a quella al leone, passando attraverso la caccia al giaguaro in patagonia, all’orso bianco fra i ghiacciai del nord o alla tigre nella foreste del Bengala. Leggendolo, colpiscono immediatamente due elementi: la prosa roboante e drammatica da romanziere che contrasta con la tensione scientifica nell’analisi di personaggi e situazioni, tipica dell’esploratore illuminato, ed il ruolo di osservatore che l’autore riveste anche quando descrive le più cruente scene di predazione. “Caccia alle bestie feroci” non è un libro di caccia nel senso in cui siamo abituati ad intendere questa accezione, anzi in realtà non è nemmeno un libro a se stante, essendo parte del suo “Viaggio intorno al mondo” pubblicato intorno al 1830. L’editore Sonzogno, alla fine del secolo diciannovesimo, pensò bene di farne un volumetto a parte, riunendovi tutte le osservazioni a carattere naturalistico e venatorio. Leggendolo, notiamo che il fascino della prosa di Arago è dato proprio dal fatto che egli non è cacciatore. Non lo è perché traspaiono palesi la sua mancanza di vocazione e l’affidamento delle dissertazioni da geoantropologo d’altri tempi ad una discreta attitudine alla narrazione, che rendono le sue pagine interessanti e di sicura godibilità. Voglio offrirne uno spunto a chi non ha avuto l’opportunità di leggerlo:Arago2“…Il bufalo è il nutrimento del boa. Non appena questi ne afferra uno pei fianchi lo trascina contro gli alberi giganti di quella foresta, lo circonda, lo stringe e lo soffoca a dispetto delle sue corna acute, dè suoi orribili muggiti e del vigore delle sue spalle. Poi lo copre di bava e con la sua lingua scabra lo carezza e lo injetta in pari tempo; lo schiaccia, lo allunga, tritura le sue ossa….. e quando il suo istinto di rettile ha capito che la vittima può esser divorata, egli la lascia cadere….Per me preferirei di dover combattere una tigre o un leone affamato nel deserto, che il terribile constrictor in mezzo alla foresta. La palla è impotente contro di lui, perchè io vi dimando il mezzo per poterla diriger bene attraverso alle sue rapidissime ondulazioni simili ai capricci della fiamma. Eppoi, dov’è il vostro nemico? Voi credete sentirlo agitarsi sotto i vostri piedi, mentre che aggrappato con gli ultimi anelli della sua coda ad un ramo elevato, si dondola come la fionda del balearo e si precipita per allacciarvi e stritolarvi come vi ho detto che fa al bufalo ”.

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