Le tinte fosche della miseria contadina e le prime ansie di riscatto sociale sono
patrimonio di tutta la letteratura del diciannovesimo secolo, non ultima quella francese. Un esempio emblematico di questo crescente sentimento d’attenzione verso condizioni sempre meno accettabili lo ritroviamo ne “Il bracconiere”, uno scritto del 1897 e pubblicato due anni più tardi, opera di Eugène Le Roy. Sullo sfondo di una Provenza ancora molto assoggettata ad un’economia terriera di stampo feudale, Le Roy snoda con indubbia bravura le vicende di Giacomino, italianismo di “Jacquou le croquant” titolo originale dell’opera, un bracconiere che si ribella al signore del luogo e vive isolato nella foresta tendendo trappole agli animali di cui conosce tutte le abitudini. Lo scrittore, in nome di un realismo che alla fine del secolo romantico pare essere diventato la parola d’ordine di chi impugna la penna ed il pennello, è minuzioso nel descrivere oggetti, situazioni e personaggi, tratteggiando questi ultimi soprattutto negli atteggiamenti quotidiani, con poche o nessuna concessione ad introspezioni psicologiche. La copia in mio possesso è un’edizione fuori commercio del 1971, delle Edagricole, la cui traduzione è stata affidata a Franco Mollia. Da questo romanzo, alla fine degli anni sessanta la televisione francese ne trasse un fortunatissimo sceneggiato, che rilanciò l’opera presso il grande pubblico e diede al suo autore una fama a livello continentale. Anche qua, va detto, non ci troviamo fra le mani un libro di caccia, bensì, a dispetto del titolo, un libro in cui le situazioni venatorie vengono qualche volta a galla affiorando fra le pieghe di vicende ben più importanti, quasi a volerne sottolineare l’ordinarietà. Un passo che mi è piaciuto e che voglio condividere con chi sta leggendo vede il nostro Giacomino in piena “attività lavorativa”: “ Nella foresta, sopra la Granval, c’era un’altura dove si venivano ad incrociare tre sentieri. In mezzo c’era una quercia antichissima, enorme, che cinque uomini potevano abbracciare a stento, detta la quercia delle fate: poteva avere mille anni ed era certamente una di quelle che veneravano i Galli nostri antenati…Secondo la gente questo posto era frequentato dagli spiriti….Come ho già detto questi racconti non mi spaventavano, e andavo spesso in questo posto perché era buono per ogni tipo di selvaggina. Lupi, cinghiali, volpi, scoiattoli, lepri ci passavano venendo chissà da dove; e poi, a causa della cattiva reputazione del luogo, nessuno veniva alla posta, per cui il luogo era sempre libero. Una notte mi trovavo lì, seduto su una grossa radice che usciva dalla terra, simile al dorso di un serpente mostruoso, e, addossato all’albero, con il calcio del fucile nascosto sotto la giacca, pensavo….Sentii alla mia destra lo squittìo prolungato di una volpe che inseguiva una lepre e rimasi in attesa. Dopo un quarto d’ora vidi la lepre che avanzava senza fretta……Mi ero divertito ad osservare le sue mosse “va, povero animale” pensavo, “mettiti in salvo per questa volta…”. Poco dopo sopraggiunse la volpe, il muso a terra, la coda bassa, talmente incollata alla traccia della lepre da dimenticare la sua abituale diffidenza. A venti passi la feci saltare in aria con un colpo, la raccattai e la misi nella bisaccia, poi me ne andai.”
CACCIA E LETTERATURA: LA PENNA DI ARTEMIDE
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