Tuttavia, per trovare qualcuno che, quanto a maestrìa letteraria, parla di caccia al livello di Hemingway e Tomasi di Lampedusa, dobbiamo arrivare a Wilbur Smith. Il mago sudafricano è senza dubbio uno dei fenomeni letterari più importanti di ogni tempo. La prima volta che m’imbattei nei suoi scritti, fu circa venticinque anni fa leggendo “L’ultima preda”, acquistato quasi per caso all’edicola della stazione. Non riuscii a staccarmi dalle pagine fino a quando non terminai il libro. Mi sollevai dalla poltrona stordito, eccitato, leggermente sudato e bianco come un cencio: un effetto simile me lo aveva procurato solo Hemingway, quando adolescente lessi in un pomeriggio, tutto d’un fiato, “Il vecchio e il mare” sordo ai richiami degli amici col pallone prima, e perfino della fidanzatina un paio d’ore più tardi.
Smith è un grandissimo: inarrivabile attenzione al dettaglio etnografico e naturalistico, tale da far sembrare realmente accadute le sue storie che ovviamente sono invece inventate e composte con prosa incalzante e sceneggiatura da grande regista; progressivo dosaggio degli elementi d’introspezione psicologica dei personaggi; conoscenza venatoria e naturalistica di livello superiore. In quasi tutti i sui romanzi la caccia compare e ricompare sotto cento forme e in cento diverse situazioni. Ma lo spazio mi impone di rammentarne insieme solo uno e, in ossequio a quelle emozioni di un quarto di secolo fa scelgo l’inizio dell’epica avventura dietro al leggendario,
imprendibile elefante ne “L’ultima preda”, edito dagli Editori Associati per la traduzione di Carlo Brera: “Il veld africano è tutto attraversato dai sentieri degli animali: a questo guado molti convergevano a stella. Tutti i membri della battuta, all’esclamazione della guida accelerarono il passo, ma il primo ad arrivare fu Matatu, con la testa piegata per sfruttare al massimo la luce dell’alba, e in mano una bacchetta di salice scortecciato con cui sfiorava il terreno. Non aveva fatto neanche cinque passi che si rialzò e guardò Sean, coi lineamenti grinzosi che esprimevano eccitazione e felicità. “E’ lui” cinguettò. “Sono i piedi del padre di tutti gli elefanti. E’ Tukutela! E’ l’arrabbiato!”. Sean guardò la grande impronta tonda stampata nel terriccio fine del sentiero degli animali, e si sentì travolgere come da una marea primaverile che gli montasse dentro. L’eccitazione di prima fu sostituita da un senso di fatalità, di gravità quasi religiosa. “Matatu”, disse. “Segui le tracce.” Aveva così annunciato ufficialmente l’inizio della grande caccia…”
Il caffè volge al termine. Abbiamo accennato a questo e a quello, abbiamo espresso qualche giudizio, ci siamo scambiati qualche opinione da appassionati.
Il tempo tiranno e lo spazio suo sgherro ci impongono di alzarci dal tavolino del nostro immaginario caffè. Dobbiamo farlo però con l’ombra di un rammarico pungente, quello di non aver potuto per forza di cose ricordare tutti gli autori, stranieri ed italiani, che hanno saputo offrirci emozioni ed insegnamenti preziosi con i loro riferimenti alla caccia. Penso al grande Emilio Salgari, al raffinato e visionario Italo Calvino, al fascinoso Vitaliano Brancati, al “pasionario” Emilio Lussu, a diversi autori esteri poco conosciuti come il britannico White, il tedesco Von Dombrowski o l’americano Evans, tanto per rimanere solo fra quelli tradotti nella nostra lingua.
Ebbene, a tutti questi e a tanti altri, che siano ancora tra noi o nei verdi pascoli, dico grazie, levando alla loro salute il bicchierino dell’ammazzacaffè.
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