Gli anni del dopoguerra vedono un altro grande che accenna alla caccia nella sua opera: si tratta di Giuseppe Tomasi, duca di Palma e principe di Lampedusa, straordinario autore del “Gattopardo”. Com’è noto, anche per l’indimenticabile trasposizione cinematografica dei primi anni sessanta di Luchino Visconti, “Il Gattopardo” è una saga familiare, pubblicata postuma dopo la morte dell’autore avvenuta nel 1957, narrante le vicende di una famiglia della più alta aristocrazia siciliana che vive il dramma del trapasso dal regno di Napoli all’unità d’Italia. Garibaldi è appena sbarcato a Marsala e molti pensano che la sua venuta non porterà nulla di buono. Il principe di Salina è un gentiluomo di stampo quasi feudale, ricco di immensi possedimenti e di numerose magioni. Ma è un uomo intelligente: matematico ed astronomo dilettante, passa molte ore ad osservare le stelle ed i pianeti, uno dei tre rifugi ad un “mal de vivre” che lo pervade e lo attanaglia senza pietà. Ma, per dirla con il suo autore, questo atteggiamento troppo intellettuale susciterebbe un po’ di sospetto fra i suoi pari ed anche fra il popolo, e di certo verrebbe pesantemente biasimato per questa sua mania se non fosse, come accennavo, un instancabile cacciatore. La scena della battuta di caccia al coniglio in compagnia di Teresina, la sua bracca preferita e del suo fido guardiacaccia e factotum don Ciccio Tumeo, è una pagina che, una volta letta, non può essere dimenticata mai più. La caccia come valore buono, dunque, come esorcismo contro qualsiasi appiglio di maldicenza e come seconda panacea, la terza è la rigogliosa e devota amante, alla malinconia del tempo che sfugge senza rimedio e che il principe percepisce a guisa dei granelli di una crudele clessidra, sempre più veloce, ogni giorno più inesorabile.
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