Una volta mi capitò di acquistare un cane a scatola chiusa. O meglio, non proprio
chiusa, diciamo semichiusa, ma comunque sempre tale da non palesare bene il suo contenuto. Il fatto fu che mi volli fidare del venditore e non provai il cane a caccia, ma solo in un grande recinto nei pressi dell’allevamento. Era un bel segugio italiano nero focato, potente, vivace, che mostrava sul pedigree un affilo di sangue che mi attirava particolarmente. Sciogliemmo il cane su un prato di medica e lui si mise immediatamente alla ricerca di uno di quei monconi di confuse passate che caratterizzano la mappatura odorosa dei recinti come quello in cui ci trovavamo. Notai come il cane archiviò bene gli spezzoni freddi, agganciò ancora meglio un tratto di passata buona e la seguì aumentando il ritmo di una voce maschia e sicura. Nei pressi del covo, il potente segugione rallentò la marcia, schiacciò il naso al suolo e partì abbaiando verso un cespuglio, levando ed inseguendo la lepre. Una settimana dopo decido di provarlo a caccia, da solo, in una zona vicino a casa dove c’erano molti arati, pezzati qua e là da incolti e da alcuni campi di girasoli. Rico, così si chiamava, evidenziò subito una cerca attivissima. Montò sugli arati come se ne conoscesse ogni zolla, li attraversò col naso incollato sull’argilla divorandone l’estensione e tagliando con perizia il centro, quindi arrembò verso un vasto incolto irto di erbacce alte e spinose. Andammo avanti così, saltando da un campo all’altro per almeno un’altra mezz’ora. Ero ormai giunto alla conclusione che di lepri non ce ne fossero rimaste, quando il cane ammutolì e lo vidi alzare la testa, scrutare l’orizzonte e iniziare a trottare portando il capo alto ed il collo rigido all’insù. Allungò il trotto, s’aprì ai lati come un bracco di gran vaglia e prese terreno a decinate di metri, sempre più veloce compiendo dei circoli di ampio raggio. Iniziai a corrergli dietro, ma eravamo ritornati su un arato e la differenza d’andatura era troppa. Settanta, ottanta metri davanti a me, espolose un bercio pauroso a cui seguirono una mitragliata d’abbai da cane da guardia e si mise ad inseguire la lepre che era schizzata dal coltrato come sputata dal terreno.
Morale della favola, non potei sparare alla lepre perché troppo lontana e perché non avevo capito cosa mai stesse apprestandosi a fare quel meraviglioso spaccamontagne, dotato di prodigioso senso del selvatico ma assolutamente inadatto per essere impiegato nella caccia da solo, a causa del suo sistema di scovo, totalmente diverso, se non opposto, a quello messo in mostra nel recinto.
Caccia col segugio: dimmi come scovi…
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