Diciamo che l’ottocento artistico inglese apre i suoi battenti sotto l’ombra prepotente di William Turner, genio indiscusso dell’arte romantica, il quale con il suo modo di raccontare le immagini secondo un criterio “luministico”, ovvero con il tramite della luce atmosferica, ha senza dubbio influenzato tutta la pittura europea dell’inizio del secolo, e cioè tanto quella neoclassica, quanto, ma in misura ancora maggiore, le tormentate ansie neoromantiche. Questo è un dato che dobbiamo sempre tenere presente quando ci accostiamo alla pittura britannica, perchè solo riferendoci al grande maestro londinese potremo capire certi giochi di luce anche in rappresentazioni formalmente ben compiute, oppure la scelta di tinte liriche, sia scure che chiare per dipingere soggetti che non ne avrebbero avuto particolare bisogno. A questo dato dobbiamo coniugare il “country sense”, da sempre fortemente connaturato con la cultura anglosassone poiché il rapporto fra l’uomo e la natura mediato da esseri amici come il cane o il cavallo, è una porzione basilare ed irrinunciabile dell’animo britannico. Difatti, una delle “sceneggiature” artistiche inglesi più universalmente conosciute è senza alcun dubbio la caccia alla volpe, dove la commistione fra l’uomo, il cane ed il cavallo è assoluta, perfetta al punto da costituire una branca a sé stante, un universo parallelo, una specialità ben precisa dal punto di vista soggettistico. Non può sfuggire, allora, una particolarità di fondamentale interesse: dal punto di vista etico-filosofico e dunque sul piano formale e tecnico, l’arte “sporting” britannica ha sviluppato un universo parallelo a quello egemone nel resto d’Europa e pur avendo assorbito le febbrili ansie romantiche o le solenni figurazioni neoclassiche, le ha recepite filtrandole attraverso il crogiolo dei propri secoli e degli eventi del suo passato.