Purtroppo è proprio così. Ogni allevatore coltiva segretamente il sogno proibito dell’autarchia genetica protratta nei decenni; ogni cultore di una razza, possiede della stessa una sua visione personale, frutto di vagheggiamenti fondati, di idee che sono andate maturando con l’allevamento o di chimere precostituite, retaggio di mille suggestioni. Ma la natura, a cui non interessano i “si” o i “no” umani, agisce secondo schemi che sarebbe da stolti e da insensati contraddire o peggio, contraffare: nessuna popolazione di animali superiori, piccola o grande che sia, può sopravvivere attingendo esclusivamente al proprio sangue. Le leggi della genetica, sono delle morse ferree alle quali è impossibile sottrarsi. E se è vero che Laverack operò in “inbreeding” per molti anni, è altrettanto vero che partì da un ventaglio sanguineo notevolmente ampio, che gli permise di lavorare abbastanza tranquillamente. Nonostante ciò, anche una famiglia canina come la sua, non avrebbe potuto sopravvivere solo pescando dal proprio serbatoio e dovette giocoforza accogliere nuove correnti proprio per non dover estinguere certe caratteristiche.
Quel calzolaio inglese, oltre che sul suo indubbio, confidò su una serie di decisioni oculate al momento giusto, come quella di rinunciare a presentare i suoi cani in una pubblica esposizione se non quando era sicuro di proporre un prodotto imbattibile, o di vendere cuccioli a chiunque glieli chiedesse, creando così ad arte su questi un alone di esclusività che li rendeva ancora più appetibili. Aiutato dal totale merito dei suoi cani, costruì un’aura di leggenda che portò in breve tempo il setter inglese “Laverack”, a diventare, nell’immaginario collettivo, il setter per antonomasia.
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