La cagna si chiamava Valine, ed era di proprietà di amici, presso cui, con mia moglie avremmo trascorso tre giorni prima di ripartire verso la Spagna dov’eravamo diretti. La mattina del sabato partimmo in quattro, l’amico Antoine, i suoi due figli ed io accompagnati da un breton e da Valine. La meta era una particolare valle che si apriva nel cuore di montagne alberate da brivido, dove avremmo potuto incontrare qualche beccaccia. Giunti a destinazione ci dividemmo per battere i due lati opposti della valle, per ricongiungerci dopo aver esaurito il periplo alberato e quindi affrontare in senso opposto la parte centrale ed erbosa della valle. Chiesi immediatamente di poter seguire la bracca, affascinato dallo splendido manto moschettato di blu inchiostro e da uno sguardo davvero meraviglioso.
La prima ora la passai totalmente ipnotizzato da lei. Per me, quella razza era una
novità assoluta e non volevo perdermi neanche un secondo dei suoi movimenti. La cerca era ristretta ma intelligente, condotta al piccolo trotto con qualche tempo di un galoppo leggero, economico, perfettamente adattato al bosco ed ai suoi saliscendi. Pareva di veder lavorare un bracco italiano di quelli un po’ spinti, con la differenza che Valine portava la testa più sull’orizzontale, sollevandola ed abbassandola leggermente come a voler assaggiare l’aria su più livelli. Era un piacere vederla lavorare con quel suo mozzicone di coda sempre in movimento, aprendosi a destra e a manca, e qualche volta anche tornando sui suoi passi ad esplorare meglio un cespuglio o un gruppo di alberi che sul momento aveva trascurato. Antoine, armato di un fucile automatico a canna corta, mi disse che per cacciare bene con questo genere di cani bisognava adattare il nostro passo al loro e non pretendere il contrario, come spesso, anche inconsapevolmente, si fa.
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