La mano rugosa aprì l’armadio di rovere che occupava l’angolo della stanza. Scostò lentamente la pesante anta scura ed entrò, pescando nel buio. I primi istanti faticò ad incontrarla. Erano passati tanti anni dall’ultima volta che l’aveva cercata; poi d’improvviso ne sentì il corpo freddo ma vivo e accarezzò il legno riconoscendone ogni graffio.L’avvolse stringendola con le dita e la sollevò per estrarla dalla sua casa odorosa di cera, cuoio e polvere da sparo. Era ancora elegante come una signora di classe, e nel contempo timida ed ammiccante come una vergine che sa d’essere bellissima. L’altra mano si posò sulle lunghe canne brunite e ne scorse la superficie fino alla volata, per poi violare i due fori con un movimento di lenta esplorazione.
Il vecchio si portò al naso le dita ed aspirò il profumo che vi era impregnato, socchiudendo gli occhi in una sorta d’estasi che s’interruppe quando la fitta gli mozzò il respiro per alcuni secondi interminabili, facendogli compiere un breve scatto in avanti.
“Iniziamo presto, stamane…”, sospirò ansimando. “Meglio così…..almeno non avremo brutte sorprese dopo…”.
Mise la doppietta in spalla e s’accorse che era scivolata perfettamente andando a centrare il giusto incavo, come una volta, come quando era meno vecchio e più forte, come se fossero trascorsi venti giorni invece di oltre vent’anni. Era passato veloce il tempo, e quanto ne era trascorso, dall’ultima volta che aveva portato in giro quel fucile. Campava ancora sua moglie, ed i tre figli erano poco più che adolescenti. Poi, come a volte accade, le cose della vita avevano preso una piega cattiva e gli avevano portato via la sua Elisa, lasciandolo in balìa di un vortice di disperazione interminabile. Le due femmine s’erano sposate e avevano cambiato regione, mentre il maschio era andato in America dopo la laurea e a casa non era più ritornato. Telefonava si, qualche volta scriveva, ma di farsi vivo non parlava mai. “Costerà poi così tanto questo biglietto?”, si era domandato il vecchio dopo il primo anno. Poi aveva capito qualcosa. Suo figlio era finito in una prigione dell’Illinois per una faccenda di droga e di donne, finita con il morto. Una delle figlie gli aveva detto finalmente la verità, perché non era possibile sostenere ancora delle scuse che giustificassero quell’assenza così prolungata e per lui il gorgo era diventato ancora più spaventoso.
Quanti pensieri gli aveva dato quel ragazzo, fin dalla sua più tenera età. Sempre incline a scansar le fatiche e le responsabilità, sempre preso dalla ragazza di turno, mai una volta che lo avesse accompagnato a caccia o che avesse rigovernato il cane. Anche la madre, la sua povera Elisa, spingeva sempre perché la domenica andasse col padre per i boschi, almeno qualche volta, invece di instupidirsi con quegli strani amici che frequentava in paese. Poi iniziò a studiare sociologia all’Università e riuscì stranamente a laurearsi in tempi buoni e con ottimi voti, ma distaccandosi sempre più dalla famiglia. Era pieno di idee strane per la testa: contestava tutto, come molti giovani in quel periodo, poi la morte della mamma, nel 1969, diede il colpo di grazia ad un legame che per il ragazzo era diventato ogni giorno meno importante.
Il vecchio era stato il maestro della scuola elementare di quel paese accostato alle prime propaggini dell’appennino emiliano, era benvoluto da tutti e da questo fatto, oltre che dall’intensa passione per la caccia alla beccaccia, aveva tratto le sue più grandi soddisfazioni. Dopo il matrimonio delle figlie, finché aveva potuto era rimasto da solo. Poi, piano piano, la malattia s’era insinuata come una serpe maligna ed aveva incominciato il suo lavoro di distruzione, scalfendo giorno dopo giorno il cuore già dolorosamente provato dell’uomo, che da qualche anno ormai s’era costretto a vivere in una casa di riposo di Reggio nell’Emilia. Era ancora abbastanza autosufficiente, ed ogni tanto prendeva il treno e tornava al suo paese per respirare un po’ di quell’aria che laggiù, all’ospizio, gli pareva avesse un profumo diverso, malgrado il bel giardino di cui poteva usufruire.
Dall’armadio, il vecchio tolse anche una cartuccera. Era ancora piena a metà. Ne svuotò il contenuto sul tavolo della piccola sala da pranzo ed esaminò le cartucce che s’erano sparpagliate roteando rumorosamente sul loro fondello d’ottone. Le ricordava ad una ad una, poteva dire perfino l’occasione in cui le aveva comprate e che efficacia avevano avuto sulla regina. Le prese tra le mani, le controllò, le annusò e le ripose ognuna nella sua celletta secondo l’ordine che gli aveva dato l’ultima volta: più vicine alla fibbia, quindi a destra, stavano quelle rosse, con l’anigrina lamellare e il piombo del nove, quindi seguivano quelle azzurre francesi, caricate con il numero otto ed infine, tutte alla sinistra, trovavano alloggio una pattuglia di bossoli gialli, insieme con una arancione che pareva un sergente, i quali avevano un caricamento più progressivo ed i piombi del sette e mezzo. Erano quattordici in tutto. Decise di riprendere da dove aveva interrotto. Indossò la cartuccera e pescò ancora una volta nell’armadio. Questa volta la mano toccò qualcosa di morbido e lui riconobbe subito di cosa si trattava. Era il suo cappello, un vecchio borsalino di tweed, dono della moglie più di cinquant’anni prima. Nella fascetta si trovava infilato un piccolo pennacchio di penne del pittore, ottenuto con le prime regine abbattute dopo il regalo. Sentì gli occhi diventare caldi e il suo cervello viaggiò nel tempo e nello spazio, finchè non la vide: era bella, giovane, emanava gioia di vivere ed un’allegria che conquistavano. Stava sulla porta della stanza con quel pacco in mano incartato da lei stessa e gli sorrideva amorevole, porgendoglielo. “Che cos’è?”, chiese lui senza riuscire a distaccarsi dagli occhi castani di Elisa. “Aprilo..E’ per il mio bel cacciatore!”
“Il mio bel cacciatore…..se potesse vedermi adesso..”, ghignò amaro il vecchio, abbassando gli occhi umidi sul cappello piumato. Lo infilò sui radi capelli bianchi e gli parve come per magia di non esserselo mai tolto.
Poi richiuse l’armadio ed uscì nell’aria frizzante di quel primo mattino di novembre.
S’incamminò per la vecchia carraia che portava al bosco ripercorrendo un itinerario che nel passato aveva seguito centinaia di altre volte. Dopo mezz’ora di leggera salita, quando ormai le case del paese parevano esser scomparse dietro di sè, notò ai lati della stradina una fila di cartelli bianchi e s’avvicinò incuriosito per leggere quel che indicavano: “Divieto di caccia…zona di ripopolamento e cattura…oh bella! Questa è nuova! Ma che vorrà mai dire questo divieto? Se si può catturare che significa vietare la caccia?” Dinnanzi alla parola “divieto” però, la sua integerrima coscienza civica gli suggerì dapprincipio di cambiare strada, ma poi una serie di considerazioni e di conclusioni che gli apparvero logiche lo convinse a tranquillizzarsi, facendolo decidere di proseguire.
La vecchia foresta di faggi era dove l’aveva lasciata l’ultima volta e pareva uno scialle poggiato su un letto per come spiccava sul colore giallastro della sommità della montagna. Si fermò, guardandone l’estensione: “Quante regine ho incontrato là dentro…..Se non ricordo male una delle buttate dovrebbe essere proprio dove il bosco disegna quell’ansa…” , ed indicò il punto mentalmente. “Ma di questa stagione ogni metro può essere buono. E comunque, senza cane, anche se ci fossero come le troverei?” Scosse la testa artigliato da un conato di violenta nostalgia, di quel tipo maligno che prende solo chi è alla fine della corsa e ripensò ai cani: che bei ricordi evocavano! Ne aveva avuti sette da quando s’era sposato, tutti spinoni tranne il secondo che era un pointer bianco e nero. Era tremendo, commentava camminando, ma quant’era bravo sulle beccacce! Proprio presso il torrente che scorreva nel bosco, una domenica mattina ne aveva trovate quattro in meno di un’ora; era l’inizio degli anni cinquanta, ma non poteva più dire di quale anno esattamente si trattasse: troppi ne erano passati ed i ricordi gli si accavallavano tutti alla memoria, come facevano i suoi bambini al portone della scuola, smaniosi di uscire quando il bidello suonava la campanella.
Mentre iniziava ad addentrarsi nella foresta, il sole aveva quasi finito di vestirsi del tutto. La foresta incominciava a colorarsi con i toni caldi d’autunno e al vecchio parve di riconoscere un sentiero che avrebbe dovuto condurre verso uno slargo esposto a sud che lui aveva battuto tante volte trovandovi sempre un premio per la sua fedeltà. Proviamo, si disse, col proposito che al limite sarebbe tornato sui propri passi. Un graffio brutale al petto lo fece trasalire. Sentì la fronte inumidirsi per il sudore improvviso e s’appoggiò ad un albero, avvinghiandolo con un braccio. “Più piano…devo fare più piano!”. Respirò a fondo e risollevò la testa che aveva piegato sul petto. Strinse con la mano destra la cinghia della doppietta e con la sinistra allungò una carezza al faggio a cui s’era aggrappato: “Grazie…”, gli disse come se stesse parlando ad un vecchio amico, quindi ricominciò a camminare a passi lenti, pesanti, mentre la sensazione di aggressione al cuore andava progressivamente attenuandosi. Il piccolo tratturo doveva essere davvero quello giusto, se dopo un poco si ritrovò nel suo slargo circondato da grandi alberi antichi, austeri come saggi seduti intorno al tavolo di un importante consiglio. Il vecchio si girò guardando tutt’intorno scrutandone le cime rade e gloriose e staccò il fucile dalla spalla. Curiosamente, adesso si sentiva bene. Il respiro era fluido, le gambe salde, le mani forti e irrorate di sangue caldo. Era come se fosse entrato in uno spazio incantato, un cerchio della vita in cui il tempo non esisteva e dove i sogni potevano in qualche modo diventare realtà. “Bentrovati, signori! Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ci siamo visti…ma voi siete in ottima forma….davvero in ottima forma..” Era un quarto di secolo che non visitava quel posto, ma aveva la sensazione di non essere mai ritornato a casa dall’ultima volta che c’era stato. Lo ricordava benissimo, quel giorno: era fine febbraio e Brina, la spinona tutta bianca, l’ultimo dei suoi cani, aveva disegnato un largo giro attorno agli alberi dello spiazzo ripetendolo come a formare degli anelli concentrici sempre più larghi, quindi s’era fermata morbidamente, flessa sugli anteriori e con i grandi occhi d’ambra spalancati e attoniti. L’aveva raggiunta e le si era messo davanti, percorrendo gli ultimi metri senza far scricchiolare una foglia. La beccaccia s’era alzata a colonna verso la chioma di un carpino scoppiettando morbida e lui l’aveva incannata bene e aveva sparato.
L’esplosione lo fece sobbalzare. “Ma cos’è che mi metto a fare! Sparo ai ricordi, adesso!”, bofonchiò stordito il vecchio scoprendosi il fucile ancora fumante fra le mani. Scosse la testa ed aprì la doppietta, estraendo la cartuccia. Poi guardò l’altra, quella in seconda canna, e decise di togliere anche quella: “Non si sa mai….dovesse tornarmi davanti alla mente qualche altro fantasma…”. Solo allora si rese conto di ciò che stava facendo. “Non m’importa…”pensò “..ormai non m’importa più di niente! Ne avevo voglia e basta. Cos’altro mi rimane? L’ospizio? Le due telefonate all’anno che mi fanno le mie figlie? Oppure lo stillicidio di sapere mio figlio a marcire in una galera americana? Dimenticavo….il cuore malato…questo maledetto cuore malato! Ecco cosa mi rimane!”
S’accorse che stava gridando. Gridava, mentre i suoi amici alberi lo assistevano muti e immobili. Poi aprì di scatto la doppietta, la caricò e sparò in aria i due colpi. Urlò la sua disperazione e ricaricò, sparando ancora verso i rami dei faggi. Poi lo rifece ancora ed ancora, fino a quando non esaurì tutte le cartucce. Allora s’inginocchiò al centro dello slargo, si coprì il volto con le mani e pianse tutto il dolore che aveva portato dentro per cinque lustri e che giorno dopo giorno gli aveva avvelenato il cuore erodendolo come acido venefico.
Quando s’alzò, il sole era ormai ben alto nel cielo terso di quello strano mattino. Malgrado lo sfogo violento, il vecchio si rese conto che il suo muscolo cardiaco non ne aveva accusato alcuna conseguenza. Non una fitta, né una pressione, neppure la minima difficoltà respiratoria. Si ricompose e rimise la doppietta sulla spalla, apprestandosi a ritornare a casa. Percorse a ritroso il sentiero, discese fuori dalla foresta e imboccò la carrareccia che portava al paese. Un fuoristrada della Forestale sostava su un lato della strada, mentre i due uomini in divisa scrutavano il bosco ed i campi circostanti. Uno dei due lo vide, e fece cenno all’altro. Gli andarono incontro, e il vecchio si fermò, guardandoli.
“Fermo lì. Mi consegni il fucile e favorisca i documenti!”, intimò il capopattuglia “..Lo sa che è zona di divieto? Era lei che sparava?”
“Ho letto qualcosa, ma non ci ho fatto caso…si..credo d’aver sparato io..” rispose il vecchio con un filo di voce. Poi i suoi occhi si irrigidirono e scrutarono quelli del forestale, che a sua volta ricambiò lo sguardo, rimanendo vagamente stranito.
“Ma…ma lei è il maestro Sarti!”
“E tu devi essere…..vediamo… Rampini, si tu sei Rampinii…vero? Anni scolastici dal ’52 al ’57..”
“Sono Rampini, maestro….Come fa a ricordarsi?”
Ulisse Sarti si ricordava di tutti i suoi alunni. Di ognuno rammentava pregi e difetti, come se fosse appena uscito dalla scuola, e tutti gli avevano sempre voluto bene come ad un padre.
“Come stai….come ti va la vita?”
“Maestro….sto bene..Vivo a Sassuolo e questo lavoro non è malvagio. Ho due figli….il maggiore, pensi, ha preso l’anno scorso la licenza di caccia e appena è possibile andiamo insieme a regine. Eh già perché anche io, come lei maestro, son beccacciaio purosangue!”
Il vecchio sorrise ed annuì, contento che almeno quell’uomo poteva godere di una gioia che a lui era stata negata. L’altro forestale si avvicinò, con quel fare sornione di chi deve dire qualcosa ma non reputa mai giusto il momento per farlo, e si mise al fianco del collega. Questi capì: “Maestro….il problema adesso è che lei era in zona di divieto….dovremmo almeno vedere i suoi documenti….sa, il porto d’armi e la licenza, poi l’assicurazione …”
Il vecchio s’infilò una mano nella giacca e tirò fuori un portafoglio di pelle marrone, che porse al forestale con la mano tremolante.
L’uomo sgranò gli occhi e rimase con la bocca rigida e socchiusa. La foto sul documento aveva fatto trasalire Rampini, simile com’era al ricordo che lui aveva del suo vecchio maestro di scuola, ma il porto d’armi era scaduto nel 1973 e l’ultima licenza pagata risultava quella del ’69. Ventidue anni prima. Dell’assicurazione, naturalmente nemmeno la traccia. Sarti guardò i due agenti passando rapidamente da uno all’altro, ma nessuno parve in grado di profferire un solo commento adatto all’evenienza. Poi Rampini chiuse il portafoglio, guardò il collega e si rivolse al vecchio: “Forse sarebbe meglio se lei tornasse a casa, maestro. Sa, i documenti non sono in ordine e se dovessero fermarla i carabinieri potrebbe passare dei guai..”
“Guai? Che genere di guai? Cosa possono farmi? Arrestarmi, ad ottantaquattro anni? E dove mi metterebbero? In una prigione, col cuore a pezzi che mi ritrovo?” Sul suo viso andava disegnandosi una piega sardonica: gli parlavano di guai! Che ne sapevano loro, in quale baratro senza fondo stava precipitando da ventidue anni, in quale prigione era costretto a vivere, con quale ansia attendeva che finalmente la morte lo portasse via con sè.
“Maestro, la prego….non scherzi su queste cose…adesso ha trovato noi però non tutti potrebbero essere comprensivi…torni a casa! Guardi, le ridò il fucile, ma lo chiuda bene e non lo porti più in giro….Per favore…”
“Agli ordini, comandante…sarà fatto!”, celiò il vecchio mimando uno scattar di tacchi.
“Arrivederla maestro…”
“Addio figliolo. Grazie. In bocca al lupo per il tuo ragazzo e ricordati che la beccaccia…”
“…E’ come la donna del cuore. Trattala bene e parlane poco!”, rispose commosso il forestale.
“Bravo….vedo che ancora ti ricordi qualcosa di quel che v’insegnavo..”
Poi riappese il fucile sulla spalla e riprese a scendere verso casa. Rampini seguì per un poco con lo sguardo velato dalla malinconia la figura canuta barcollante, e poi, sottovoce, sussurrò: “Grazie maestro…”
Ulisse Sarti venne trovato morto sul treno che dal paese portava a Reggio. Stringeva in mano un vecchio cappello di tweed adornato da un curioso piumino e sul suo volto solcato dal tempo e dal dolore, era disegnata un’espressione di serenità.