La caccia alle allodole è sempre stata particormente amata da coloro i quali si
dedicano con passione alla piccola migratoria. Negli anni venti, il carattere principale lo dava un elemento ben preciso: la civetta viva poggiata su un trespolo. Nel dicembre del 1926, venne pubblicato un esaustivo articolo su questo argomento, a firma di Ermanno Biagini, avvocato e giornalista, nonché praticante appassionato di questa forma di caccia.
Biagini incorniciava il tutto in un contesto di particolare evocatività, rappresentato dalla Maremma toscana, da sempre centro focale della caccia alla migratoria. Scrive: “…Si è venuta formando nella Maremma, da tempo ormai lontano, una vera e propria casta, detta dei “civettai” che si tramandano il mestiere da padre in figlio. Questa è costituita da cacciatori di professione che allevano con ogni cura, nutrendole con tenero cuore di vitello, le più belle civette cavate dai loro nidi sui tetti, e le ammaestrano a reggersi sulla “gruccia” ( mazzuolo che termina con un cuscinetto a mò di fungo) e a librarsi in volo da quella e a farvi ritorno, dopo breve volata ”.
Il cronista si diverte a tracciare un po’ un ritratto di quegli strani cacciatori
professionisti. A Grosseto, scrive Biagini, i civettai si riunivano tutte le sere alle nove al Caffè della Posta centellinando un “poncino” bollente, scambiandosi le novità della giornata, e mettendosi a disposizione dei signori venuti da fuori, desiderosi di fare esercizio di tiro e abbondante carniere. Le loro tariffe non erano indolori: ben cinquanta lire al giorno più vitto e beveraggio che il “signorino”, come chiamano il cliente, è tenuto a mettere a disposizione con particolare abbondanza. Tutti si dicevano depositari dei posti migliori ed ognuno cercava di far prevalere la propria opinione nel tentativo di ben figurare con i potenziali clienti.
Come eravamo: il club delle civette..
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