Il tramonto perlaceo, bianco di lattigine, scende nell’uliveto innanzi a me, dove le branche degli alberi che annaspano nella foschia calante sembrano le anime del purgatorio illustrato da Dorè. Preceduto dai cani, rientro verso la macchina percorrendo il sentiero che avevo battuto all’andata per tentar di levare la prima regina della stagione. D’un tratto, sento l’ovatta dell’umido che varia di timbro, come se le infinite particelle di nebbia si spostassero facendo muovere quelle accanto a guisa d’un domino acustico appena percettibile. Alzo gli occhi e la vedo davanti a me, inconfondibile nell’indistinto, bella pur se strana, ben determinata verso un punto preciso d’atterraggio anche se nuova del posto.
Uno, due attimi, e sento la fucilata che la fa roteare scomposta e poi cadere inerte come uno straccio. Un uomo senza volto arranca tra gli alberi; lo vedo chinarsi, raccogliere qualcosa e poi dileguarsi di nuovo, silenzioso come uno spettro.
Come tutti, ho sempre saputo dell’esistenza di questo scempio cinegetico, ma non avevo mai vissuto la disavventura di osservarlo in diretta. Lo valutavo come un male tollerabile, un perfido sassolino che ogni tanto fuoriesce dal suo nascondiglio nella scarpa per infastidire, imbarazzare, ma nulla più di questo. Credevo che anni, decenni di prediche e strali della stampa specializzata avessero oramai quasi eradicato questo bubbone. Invece, a quanto sembra sbagliavo. E’ una piaga sempre aperta, fiottante, difficile da guarire perché più che al corpo fa male all’anima e dunque richiede preghiere invece che farmaci, effusione di cultura in luogo di repressione legislativa, etica del buon esempio al posto di proclami retorici.
Non ha senso chiamarla “regina”, se ci sono uomini senza volto che la trattano come una cortigiana, e valgono zero tutte le pagine di letteratura che le sono state dedicate, quando poi tolleriamo che fra noi si nasconda il killer che la fredda all’agguato, senza aver avuto il coraggio di misurarsi con lei. Perché regina, allora? Forse perché è bella? La cotorna ed il fagiano sono più belli di lei. E’ buona da mangiare? Il germano ed il beccaccino la superano di gran lunga. Dunque perché le si attribuisce la regale maestà se non per il mondo misterioso che evoca, per la sfida suprema che lancia al cane e per il fascino inspiegabile che promana?
A pensarci bene, sono certo che quell’uomo senza volto è rimasto tale perfino davanti a se stesso. Al ritorno a casa non avrà alzato nemmeno lo sguardo sullo specchio per non incontrare gli occhi della decenza che lo attendevano, e non avrà guardato il suo cane, perché gli sarà mancato il coraggio perfino d’accarezzarlo. Tormentato dal suo demone, dalla sua doppia vita, dal suo “sè” perverso come un novello dottor Jekyll, quella beccaccia trucidata all’aspetto, nell’uliveto nebbioso, ha avuto per lui, ne sono certo, il gusto del pane sporco ed il tanfo del vino corrotto, mentre per me che ero lì, il sapore amaro di una delusione infinita.





