Immagina novecento chilogrammi che ti fissano dritto negli occhi. Il bisonte americano ha un’aria tranquilla che può ingannare: sembra lento, ma quando parte al galoppo, capisci che può raggiungere i sessanta all’ora senza nemmeno sforzarsi. Quella gobba dietro il cranio non è solo un ornamento; è il motore che gli consente di saltare due metri in verticale quando decide che uno steccato è solo un fastidio da ignorare.
Durante la stagione degli amori, i maschi subiscono una trasformazione. Smettono quasi di mangiare, dedicandosi solo a combattere altri tori e a proteggere le femmine. Gli scontri non sono danze eleganti, ma vere e proprie prove di forza – testa contro testa, spingendo verso l’alto finché uno dei due non cede. Cicatrici e ferite sono il prezzo da pagare per trasmettere i propri geni.
Le femmine, invece, vivono in gruppi matriarcali, dove crescono i piccoli insieme e decidono collettivamente dove andare. I maschi, dopo circa tre anni, lasciano il gruppo e da quel momento in poi è vita solitaria o in piccole bande di scapoli. Ma il dettaglio più affascinante è un altro. Dove pascola un bisonte, tutto cambia. Il suo peso modella il suolo, le sue deiezioni lo arricchiscono, e i suoi movimenti creano sentieri che altre specie seguiranno per generazioni. Si rotola nella polvere creando depressioni che diventeranno pozze d’acqua, habitat per insetti e anfibi. Non è solo un erbivoro; è un ingegnere ambientale che ridisegna la prateria semplicemente vivendo. Forse è proprio questo che rende la sua quasi estinzione ancora più tragica: non stavamo per perdere solo una specie, ma un’intera forza che modella gli ecosistemi.
IL GRANDE SENTIERO
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