Blacky però non fu l’unico caso di vocazione conclamata che ebbi modo di
ammirare.
Un altro di questi, infatti, fu quello di Lidia, una femmina di spinone che sulle beccacce pareva letteralmente teleguidata. Insieme con il suo proprietario avevamo cacciato tutta la mattina alle quote più elevate della Sila catanzarese senza però trovare fortuna, e dunque il pomeriggio optammo per delle zone situate più in basso, dove l’umidità maggiore avrebbe forse potuto permettere qualche incontro. Ci dividemmo una vasta zona a castagni e mentre io con il mio pointer battevamo la pendice, lui e Lidia s’inoltrarono in una specie di canalone boscoso che divideva la nostra collina da un’altra. Dopo poco tempo vidi cane e padrone sulla pendice antistante alla mia e l’amico iniziò a chiamarmi con degli ampi gesti delle braccia. Lo raggiunsi e mi spiegò che nel castagneto la Lidia aveva reperito numerose fatte, ma che la beccaccia sembrava aver cambiato albergo. Malgrado ciò la cagna mostrava di voler continuare, come attratta dall’intrico di alberi, acqua, felci e fogliame che costituiva l’essenza di quel compluvio. Decidemmo di proseguire insieme. La spinona ritornò quasi subito sul posto delle fatte, che anche il mio Zagor non mancò di segnalare. Ma questo, obbedendo ad un impulso irresistibile iniziò ad aprire la cerca su entrambi i lati al leggero galoppo, mentre invece osservai che Lidia proseguiva al piccolo trotto in linea retta davanti a sé, alzando ed abbassando il collo per captare le minute particelle di sentore che le sarebbero servite per risolvere l’enigma. Il mio cane non tardò a capire che la spinona sapeva il fatto suo e le si accodò ripetendo ogni passo ed ogni gesto. La seguimmo tutti come
ipnotizzati, mentre Lidia ci guidava in quello sconfinato labirinto vegetale seguendo un filo invisibile, come un segugio dietro la passata di lepre. Compimmo giri, serpentine e deviazioni sempre ad un trotto molto blando e sempre attaccati al mozzicone di coda della taumaturgica biancarancio. Entrati in un felceto, la spinona fermò per un attimo, quindi prese a filare con estrema attenzione come tirata da una lenza sottile che non vuole spezzarsi. Fatta un’altra ventina di metri, fermò a testa alta.
Noi, graffiati e sudati nonostante il freddo, attendemmo il frullo quasi dispiaciuti sperando che questo avvenisse il più tardi possibile così da prolungare oltremisura il momento finale di un’azione talmente bella che sapevamo non sarebbe accaduta mai più.
CANI E BECCACCE: L’ANIMA E IL PENNELLO
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