Fra i cani da ferma, il mio grande amore è stato il pointer. La regina del bosco l’ho cacciata essenzialmente servendomi di lui; per lui ho provato le amarezze più profonde quando Rambo, un nero siluro cattivo come il demonio, a causa della scriteriata andatura incapace di adattare all’ambiente me ne sfrullò tre in mezz’ora senza avvertirne nemmeno una. Ma sempre con il pointer ho toccato la mia più sublime estasi mistica beccacciaia la volta in cui il grande Atreo, cane di solariana bellezza, di taglia britannica e di naso sopraffino fermò una reginetta, filandone il sentore da diverse decine di metri ed andando ad arrestarsi di schianto dopo essere passato attraverso una coppia di sbalorditi colleghi accompagnati da tre cani, che improvvisamente avevamo incrociato nel bosco. I loro ausiliari entrarono in consenso, ed insieme a questi i due cacciatori attesero il frullo, lo sparo ed il riporto con la bocca semiaperta. Andarono via senza nemmeno salutare.
Nel delirio gaudente però, provai una piccola fitta di dispiacere per quei tre cani, che al cospetto di Atreo incassarono una figura che sicuramente non avrebbero meritato. Non dirò a che razza appartenevano: solamente nessuno dei tre era un pointer.
Nonostante ciò, non posso tacere che uno degli esempi di più marcata vocazione
beccacciaia me lo fornì, più di trent’anni fa, un setter gordon . Cacciavamo con un mio zio ed un suo amico in una riserva a cavallo dell’appennino toscoemiliano, accompagnati dai due nostri pointers e da un setter scozzese che apparteneva al nostro ospite. Fino a quel momento, il massiccio setterone nerofocato aveva decisamente subito la valentìa mostrata dai pointers, arrivando sempre dopo di loro nel reperimento dei fagiani. Ciò avveniva tanto per la velocità inferiore di cerca quanto perché, secondo me, a quel cane sembrava poco importare dei pollastroni colorati che stavamo incontrando. La riserva, lo verificammo dopo, era una delle peggiori in cui ci si potesse imbattere e credo che oggi non esista più, però aveva a disposizione un territorio bello, vario e molto esteso anche se noi avevamo cacciato solo in vasti pratoni incolti e solcati da fossi alberati.
Considerato il nostro scontento per la qualità della selvaggina e raggiunto in fretta il target prenotato, il guardia tentò di salvare il possibile concedendoci di cacciare “ad libitum” nelle tante vallettine solcate da rigagnoli che costellavano l’area della riserva. Avremmo potuto tirare a qualche fagiano e, se fossimo stati fortunati, anche a colombi, beccacce ed altre specie da penna cacciabili. Entrati che fummo nel nuovo ambiente saturo di essenze boschive e tappezzato di foglie cadute, Blacky,
così si chiamava il setter gordon, si trasformò in un cane diverso. Si gettò a capofitto fra le piante in direzione del torrentino che serpeggiava in basso, superò in profondità i due pointers sopravanzandoli con perizia nelle aperture e nelle esplorazioni, battè il disagevole ma affascinante bosco di querce e carpini salendo sulla pendice opposta e poi discendendo ancora verso il fondovalle ed intessè, insomma, una rete di analisi che in poco tempo fece apparire i nostri cani come due novellini alle prime uscite. Poi concluse l’opera con una magistrale filata in direzione del fiumiciattolo e lo attraversò andando in ferma, mantenendovi dentro le zampe posteriori, sotto un enorme albero che sorgeva accanto ad una pozza d’acqua, lateralmente al torrente. Il cane dello zio consentì, mentre la mia irruppe verso Blacky sbucando dalla parte opposta e mettendo in ala la beccaccia che si alzò a colonna, venne fucilata e piombò nell’acqua fredda e veloce. Il setter gordon si lanciò al recupero e non permise a nessuno degli altri due cani di avvicinarsi a lui ed al selvatico, che porse con dovizia al suo proprietario mentre dagli occhi scuri e fieri emanava una grande, più che umana, soddisfazione.
« pag 2 | pag 4 »






