“Con questo libro, che vuole essere un omaggio a chi è d’accordo con me, voglio andare dritto nel segno del titolo che può prestarsi a diversi piani di lettura; e voglio avere con il lettore ch’è più incavolato di me un rapporto diretto, fiduciale e veritiero perché quantunque cacciatore non ho l’abitudine a mentire….Molto di più è incavolata la natura: quella che noi consideriamo la nostra palestra, altri terra di conquista mercimonio di ogni suo frutto”.
Questa frase, che apre l’ultima opera di Francesco Materasso, a ben guardare riassume concettualmente tutto ciò che lo scrittore calabrese vuole esprimere. Cos’è dunque “C’era una volta la natura e la caccia alla beccaccia” ? Leggendolo, ho provato una stretta al cuore. E’ lo sfogo di un cacciatore che ha passato la vita intera inseguendo frulli di beccacce e che ad un certo punto ritiene di dover smettere, proprio in ossequio alla devozione per la sacralità, non solo della regina del bosco, ma dell’intera idea di predazione. Troppe cose non sono più come prima, troppi moderni soloni che conoscono poco e che contano molto, parlano di caccia senza conoscerla, ma anche e soprattutto troppi marrani si annidano ormai fra le fila di una categoria di galantuomini onorati. L’alveo magico, incantato quasi, degli orizzonti venatori è deturpato da brutture e pressappochismo, da mancanza di nobiltà d’animo, e da un futuro sempre più ipotecato da ristrettezze inconciliabili con l’idea stessa della caccia. E’ il grido di un innamorato disilluso, di un poeta stanco di prosaicità, di un uomo abituato a leggere nel libro della natura, scoprendola sempre più violentata nella sua essenza materna e generatrice.
“Alzai la testa per guardare il cielo. Le nubi s’inseguivano e il sole andava e veniva. Il tempo promette nulla di buono: anzi minacciava l’arrivo di qualche temporale. Ciononostante iniziai il percorso.
Il sottobosco era incipriato di brina gelata; duro sotto i miei stivali che affondavano di poco facendo croccare le foglie. Con me Zoe, una spinona roana marrone, e Kimbo, un giovane bracco italiano bianco marrone, donatomi dal mio nobile e speciale amico-allevatore: Antonio Casamassima. Misi inconsapevolmente il fucile in spalla, per me fatto inconsueto, perché dentro evidentemente avevo deciso che in caso d’incontro non avrei sparato. E pensavo – la caccia non è solo passione di abbattere ma è anche amore per la natura-. Non c’è cacciatore di “mens sana” che non porti dentro di sé questo straordinario sentimento, anche se non tutti riescono a manifestarlo pur provandolo. Perchè di veri cacciatori ne sono rimasti pochi. E quando non ce ne saranno più è giusto che non ci sia più nemmeno la caccia”.
E’ un libro amaro, crudo, bellissimo. E pur non essendo un libro per tutti, ho più d’una ragione per consigliarlo ad ognuno. 






