Abbiamo di fronte una razza indubbiamente completa, senza particolari propensioni per una fase o l’altra del lavoro, che ha saputo coniugare lo spirito di necessità degli antichi ceppi autoctoni con quegli aggiustamenti imposti da dosaggi di geni esteri, che hanno esaltato, a mio parere congruamente, le potenzialità di un cane antichissimo. Anche se per i puristi questo puzzava d’inquinamento. Ciò ha consentito al segugio italiano a pelo forte, di diventare una delle poche razze da seguita, se non l’unica , in grado di offrire al proprio “uomo” un senso di onnipotenza e di ricchezza, derivatogli dalla versatilità e dalla saggezza pratica e provata di questo cane.
Non è retorica. Chi mi legge e chi mi conosce sa che la rifuggo. Ho partecipato a battute di caccia al cinghiale ed alla volpe in cui questi cani costituivano l’impalcatura della muta. Ho osservato ed ascoltato, per come potevo, il loro modo di raccontare la storia e ne ho ammirato le linee essenziali della loro costruzione. Ed ho colto sempre, nelle parole dei canettieri, un senso di sicurezza quando la passata era segnalata da uno dei segugi italiani, così come quando uno di loro capeggiava l’abbaio a fermo su un verro particolarmente difficile.
Come dire: è uno dei “nostri” che parla, possiamo stare sicuri.
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