Per chiarire meglio il vantaggio del sistema “morfolfattorio” di cui dispone il bracco, racconterò brevemente tre episodi di caccia da me vissuta accanto a tre bracchi diversi, di cui due appartenenti ad amici e il terzo a me.
Il primo di questi si svolse in Calabria, in un settembre arroventato tra le forre dell’Aspromonte, perseguendo quaglie e vagheggiando coturnici. Sotto la mannaia di un caldo ancora quasi ferragostano, il bracco biancarancio dell’amico cominciò la guidata dopo una ferma in mezzo ad un boschetto d’eucalipto, sopra un rilievo argilloso circondato da due fossi ch’erano i letti riarsi e pietrosi di altrettante piccole fiumare. L’aria era ferma e rovente, il bracco avanzò prudente a testa alta, silenzioso come un felino, alzando ed abbassando il collo a bilanciere; quindi scese nel fosso e tuffò il naso fra la terra e i cespugli quasi come avrebbe fatto un segugio e prese a seguire una specie di pista risollevando ogni tanto la testa e avanzando come se camminasse sulle uova. Si bloccò, riprese a muoversi e alcuni metri davanti a lui s’alzò una fagiana, che abbattemmo con facilità. Se il bracco non avesse avuto il suo particolare sistema di ricezione olfattiva, senza vento e con quel caldo non avrebbe mai potuto avvertire e trattare in quel modo l’uccello infrattato nel calanco tre metri più sotto.
Il secondo episodio riguarda una memorabile lezione sulle quaglie che, una quindicina d’anni fa, una bracca servì ad una mia pointer di notevoli mezzi, in Toscana, fra i fertili campi della Valdichiana. Sciolta di preapertura per far sgambare i cani, assenza di vento, prato incolto di almeno una decina di ettari. Percorrendolo tutto in lunghezza, la bracca dell’amico, enormemente più lenta della pointerina reperì, avvertendo, fermando e a volte “seguidando”, ben ventisette
quaglie, mentre la mia cagna, naso alto alla ricerca disperata di un filo d’aria che non c’era, solamente undici.
Il terzo episodio, sempre incorniciato nelle meravigliose terre di Toscana, è avvenuto l’anno scorso, cacciando beccaccini intorno ad un lago in una mattinata di dicembre attanagliata da una galaverna talmente fredda e densa da sembrare innaturale. Il pointer ed il setter di un amico sbatterono in velocità col muso sul primo, mentre il mio Foco della Croccia, il bracco italiano delle foto di questo articolo, aveva preso il lago in mano opposta, localizzandone con calma ben due, uno dopo l’altro, avvertendoli prima e poi fermandoli a testa alta. Per quel che ho potuto vedere e che m’è parso di capire, il cane aveva captato la debole emanazione della pastura incatenata dalle molecole di brina sulle piante emergenti passando col naso a pelo d’acqua, ed era riuscito a gestirla reagendo con quella “pronta morbidezza” che caratterizza i bracchi migliori, bloccandosi sul selvatico nascosto pochi metri più in là. Il pointer invece, e con lui l’altro cane, nel voler a tutti i costi divorare l’aria “ alta” nell’improba ricerca di uno scampolo d’odore, s’era lasciato sotto il mento quella preziosa indicazione un attimo di troppo e, complice lo sgambetto dell’umidità raggelata che tratteneva molto il già tenue odore del beccaccino, aveva provocato automaticamente l’irrimediabile schioccante sfrullo.
BRACCO ITALIANO : IL NASO D’ITALIA…
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