E sbaglierebbe. Sbaglierebbe perché Paolo Ciceri subito dopo enuncia una realtà inconfutabile: “Con questa affermazione, sia chiaro, non intendo affatto sottovalutare tutti gli altri cani da ferma, che pur essi dimostrano rispondenza. I cani inglesi ad esempio vengono usati in larga scala; ottimi cani, non degradiamoli, anzi bisogna riconoscerne le qualità, ma son cani che richiedono spazio, terreni poco coperti, altrimenti si riducono sul facsimile del continentale. Questo lo si constata nella maggioranza dei casi. La pretesa di cacciare in terreni non appropriati per loro costringendoli, e a torto grave, reprimendoli, a svolgere il lavoro inappropriato è un non senso.” Come dargli torto? Come non concordare con lui quando predica al cacciatore pratico di orientarsi su continentale italiano, ovviamente di qualità provate, che si comporta a caccia come farebbe nelle prove di lavoro, adattandosi plasticamente a tutte le esigenze territoriali? Naturalmente, anche l’atteggiamento esclusivista su base pragmatica mostra i suoi grandi limiti ed è sempre importante stare in guardia per evitare di cadere nella sua trappola subdola, poiché l’utilizzo di un cane a caccia è qualcosa che rientra in una dimensione quasi metafisica, che prescinde dalle logiche funzionali, anzi sostituendo a queste quelle di un piacere spirituale che nasce da un caleidoscopio di ricordi, sensazioni e miti elaborati dall’ego e dal vissuto culturale di chi si addentra in questo universo. E allora è chiaro che non vi sarà alcuna forza in grado di convincere l’innamorato amante di una razza che magari poco si adatta al territorio, del fatto che con un altro cane potrebbe ottenere di più.
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