La marchesina Ornella l’aveva salutato con una lieve carezza che lui, pur nel rimescolamento che gli stravolgeva le viscere come una centrifuga, aveva cercato di catalogare nel modo più ottimistico. Quando Vasco lo mise alla posta però, anche quello scampolo di psicologico refrigerio, evaporò come un bicchier d’acqua nel deserto dell’Africa.
“Ecco, sor avvocato..”, gli aveva detto il capocaccia, “…se i cani riescono a spingere quella bestiaccia in sopra, passerà da qua; non c’è scampo!”, e gli indicò un trottoio che scorreva a non più di tre metri dalle gemelle, dove lui si trovava. “ Ma stia attento, e se dovesse caricare rimanga a ridosso della posta e poi… Ma tanto un omo esperto come lei lo sa da sé icchè fare”,
Andato che fu il Taddeucci, l’avvocato Birilli iniziò a sentirsi perduto.
“Ma tu guarda in che pasticcio mi son cacciato! Da solo nel bosco ad affrontare un cinghiale assassino e grosso come un asino! Ma poi, che codesto somarino abbia aspettato che venissi io per ritornare da queste parti, è veramente il colmo della sfortuna. Accidenti a lui, al marchese e alla bucaiola della sù mamma!”
Dopo circa un quarto d’ora, le mute iniziarono a latrare in fondo alla vallata. Si sentivano le voci squillanti dei segugi appena sciolti berciare tutta l’energia e la tensione repressa. L’avvocato seguiva con trepidazione ogni cambiamento nell’eco delle canizze, sperando un minuto dopo l’altro che nulla e nessuno passasse dalla sua posta. Men che meno, ovviamente, che vi giungesse il temibile somarino.
A volte le grida dei cani parevano allontanarsi, altre volte invece aveva la
sensazione che stessero tornando indietro. E allora immaginava sagome di cinghiali neri e grandi come rinoceronti, divorati dall’odio e catapultati verso di lui con il grifo inondato di bava, mentre vomitavano barriti mostruosi e schiacciavano tutto quello che si metteva sul loro cammino. Era sudato, agitato, guardava febbrile fra gli alberi in tutte le direzioni, ma non osava allontanarsi nemmeno di un passo dalle gemelle, memore del racconto del marchese sulla fine di quel povero disgraziato di Figline.
Ogni tanto, la polifonia canina s’interrompeva per alcuni minuti, lasciando spazio solo a qualche lungo latrato isolato. L’effetto era di far sussultare il tremebondo avvocato già assordato dal ritmo del suo stesso sangue pulsante, e in più, da qualche minuto lacerato da un mal di viscere di evidente origine nervosa che gli provocava lo stimolo per un impellentissimo bisogno liberatorio.
“Anche questa ora….anche questa….”, ansimò a bassissima voce Augusto Birilli aggrappandosi alle curve di una delle gemelle. Andò avanti così per un’ora abbondante, in una drammatica fisarmonica di canizze lontane e più vicine, di latrati che alle sue orecchie apparivano come licantropici, di fruscii e grugniti che stavano provando severamente la tenuta stagna del suo intestino. Poi ancora, le urla da purgatorio che fuoriuscivano indistinte dalle profondità del bosco si paventavano alla sua mente come emesse da moriture vittime del somarino infuriato; gli spari come estrema difesa contro il demone delle selve che scorrazzava pretendendo tributi di sangue canino e umano; gli stridii di bestia quali satanici sghignazzi di vittoria e di morte. Mentre artigliava il tronco in preda alla sofferenza, una canea esplose violenta come una granata poco lontana da lui. Sobbalzò, girò di scatto la testa e strinse la doppietta a sé come se avesse voluto rifugiarvisi, invece che spararci. Sentì nella pancia un’altra fitta violenta, accompagnata da un fischio sonoro. “Sono perduto! E’ la fine..La fine!”.
Le sue orecchie sentirono un guaito di sofferenza inaudita che si levò altissimo, fino alla sommità della montagna. Un grugnire mostruoso lo sovrastò permeando l’aria di un odio indescrivibile. Un terrificante coro di latrati disperati, lo seguirono come un codazzo di anime dannate.
Il terreno gli vibrò sotto le suole degli stivali. Sentì gli occhi liquefarsi ed una lacrima scendere sulla guancia. Poi un’altra forte strizzata alle viscere, un rumore inconfondibile, una sensazione di liquido che gli rigava l’interno dei calzoni.
Il cracchìo di ramaglie intorno alla bolgia d’inferno che lo stava investendo, sembrava prodotto da una ruspa impazzita. Altro umido percolante fra le gambe, poi la doppietta gli scivolò dalle mani bagnate, ruzzolando un metro fuori la trincea delle gemelle.
Corse, l’avvocato Birilli. Scappò verso il basso dalla parte opposta di quell’orrore assordante col cuore impazzito e l’intestino che emetteva fiotti di liquido caldo e maleodorante. Ruzzolò fra gli alberi, guidato dall’istinto che gli indicava la direzione migliore per allontanarsi dal mostro, inciampando, cadendo, imbrattandosi e rialzandosi ancora.
“Avvocato!”, si sentì chiamare alla sua destra. Era il marchese, con la doppietta belga sotto il braccio, che lo aveva chiamato esterrefatto uscendo dalla sua posta.
“Avvocato….”, aggiunse.
Al posto di Augusto Birilli rispose l’ennesimo, triste rumore di budella e una zaffata di odore inconfondibile.
I due si guardarono per alcune eternità, senza parlare; senza aggiungere altro.
“ Ci si può mettere d’accordo, marchese..”, esalò larvale infine l’avvocato.
“ Sicuro, avvocato. Come si conviene tra gentiluomini del nostro rango..”.
Il lanoso di maremma provocò un vero scompiglio nella muta a cui era stato aggregato, perchè tutti i maschi della compagine fecero a botte per poterlo montare. Dopo i primi sospetti del Paglia che il celebrato campione fosse “buco”, si scoprì che era invece una cagna in pieno calore, e venne così riportata d’urgenza alla casa di caccia e rifocillata per farla riavere dallo scombussolamento. Naturalmente, l’avvocato non tornò mai a riprendersela.
Augusto Birilli, forse perché non era certo se il padre avesse davvero mantenuto il segreto anche con lei come d’accordo, non rivide mai più la marchesina Ornella.
Nei quartieri vecchi di Firenze, si narra ancora che il Pierini giocando a briscola da Lando, il vinaio di via dei Servi, abbia sghignazzato per settimane raccontando un certo avvenimento: “Lo voleva fori da i’ccomune….e infatti gliel’ho preso al canile di Prato…di certo comune di Firenze unn’è!”.
E giù risate, mentre con forza calava il carico di bastoni..





