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LE BECCACCE DI FRIDA

15 Dicembre 2016 di Mario Sapia
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Frida 2Lunedi di buon’ora, Grohmann si recò in banca con i mille marchi e saldò tutti i debiti che aveva contratto. Ma sulla strada del ritorno il vecchio bottegaio non potè fare a meno di ripensare a Frida. Vedeva davanti a sé quegli occhi vispi che emanavano una luce speciale, ripercorreva con la memoria sentieri di cui aveva smarrito le tracce e che adesso improvvisamente si mostravano chiari e vividi come il giorno in cui li aveva battuti. “E’ andata così..” pensava “..vuol dire che doveva andare così…Lì dov’è sta bene, di certo meglio che confinata nel giardinetto sul retro della mia bottega, ed è talmente brava che la tratteranno sempre nel migliore dei modi. Sicuro…Basta pensare a lei adesso.. Ora devo pensare a Clara…Quei maledetti supermercati…è stato il diavolo ad inventarli…Il diavolo!” Poi, la pioggerellina leggera che nel frattempo aveva iniziato a cadere, gli venne in aiuto mescolandosi abilmente con le lacrime troppo a lungo trattenute.

Passarono un paio di mesi, ed un bel mattino Klaus Grohmann si rivide sull’uscio della bottega il barone Von Pathorst, elegante ed austero come sempre, seguito da Zimmermann, col suo faccione gonfio e arcigno.
“Buongiorno signor Grohmann, posso rubarle un attimo?” chiese con cortesia il barone al vecchio, imbarazzato dalla visita.
“Buongiorno signor barone. Ma certo, entri, venga. Come va? Frida si comporta bene?”
“Anche troppo, signor Grohmann, anche troppo.”
Il vecchio colse al volo la nota pungente, e la mise immediatamente in relazione con la presenza di Von Pathorst nel suo negozio.Frida 1
“C’è qualche problema, signor barone? ” domandò un po’ incerto Grohmann.
“Il problema è che la sua cagna non caccia. O meglio, non caccia più.”
Ad un incredulo Grohmann, il barone raccontò come dal momento esatto in cui lui aveva abbandonato la sua casa, la cagna non ne aveva più voluto sapere di caccia. Avevano aspettato, pensando che i primi giorni il comportamento potesse essere stato generato dal dispiacere del cambio di padrone. Ma adesso, perdurando l’inettitudine assoluta della cagna, aveva deciso di rendergliela lasciandogli “.. cento marchi per il disturbo”. Klaus Grohmann era sconvolto. Quella cagna era un autentico fenomeno a caccia: non poteva di punto in bianco essersi trasformata in una nullità. Tentò di far ragionare il barone, chiedendogli di prendersi altro tempo per farsi affezionare Frida, ma fu tutto inutile. Per Von Pathorst la cagna era inetta e qualunque funzionario di polizia lo avrebbe facilmente determinato. Lui gli aveva venduto un animale viziato, che stranamente solo in sua presenza aveva dimostrato qualità particolari, e dunque era punibile davanti alla legge alla stregua di chi vendeva un cavallo cattivo spacciandolo per buono con l’aiuto di un tranquillante. Il vecchio bottegaio lo guardava attonito, mentre un capogiro lo colse repentino facendogli avvinghiare il bancone. Non riusciva a capire: era pazzesco, come si poteva convincere un cane da nulla a trasformarsi a comando in qualcosa di straordinario? Come poteva un cacciatore esperto come il barone anche solo pensare una cosa del genere? Ma Von Pathorst non intese ragioni: “Le farò causa, Grohmann. Un uomo come me non agisce per i soldi, ma per il principio. Dunque non m’importa di Frida 13spendere per un avvocato dieci volte di più di quanto lei mi renderebbe riprendendo indietro la sua cagna.”
“Ben detto, signor barone!” intervenne Zimmermann tronfio come un pavone.
Il vecchio bottegaio impallidì. Sentì un crampo maligno mordergli il cuore, poi cercò a tentoni lo sgabello e vi si sedette di schianto. Alzando appena gli occhi, chiese al barone di ascoltare la sua situazione. Grohmann raccontò dei suoi figli morti in guerra, della malattia depressiva della moglie, degli esborsi per curarla invano, degli affari ormai ridotti al lumicino, dei debiti accumulati e della decisione di vendere Frida, “l’unica cosa di valore” che lui avesse mai posseduto. E nel farlo, non riuscì ad impedire che gli occhi si rigassero al pensiero della sua cagnina, mentre Alfred Von Pathorst, lo scrutava ascoltando ogni parola. Tuttavia, mentre lo faceva, la sfingea espressione del barone parve mutarsi. I suoi occhi si ridussero a due fessure che guardavano lontano, come a cercare di penetrare un mistero insondabile. Poi, mentre Grohmann narrava con la voce rotta dalla disperazione, estrasse un sigaro dal taschino e iniziò a lisciarlo. La voce di Zimmerman tuonò improvvisa:“Non faccia la commedia, vecchio!” sputacchiando veleno sotto i baffoni “ ..lei ci ha dato un’inutile bestiaccia pretendendo una somma enorme! Non so quali trucchetti abbia usato per far fare a quella cagna i numeri dell’altra volta, ma sarà meglio che..”
“Taccia, Zimmermann.” intervenne deciso il barone, alzando la mano destra e interrompendo gli improperi dell’omaccio sbigottito “..e lei mi scusi, signor Grohmann, ma sono stato uno stupido..”, proseguì Von Pathorst. La stanza si riempì d’un silenzio innaturale, simile a quello che precede un evento destinato ad essere ricordato. “L’irritazione non mi ha permesso di capire. Non avevo afferrato che un cane come quello non si può né creare, né, tantomeno, improvvisare. Adesso tutto mi è chiaro. Frida è un dono del cielo. E se il cielo lo ha assegnato a lei, vuol dire che è lei che deve godersela. O meglio, anche lei…”

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