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Da troppo tempo ormai, noi cacciatori aspettiamo ogni nuova annata come la porta che introduce alla dimensione del desiderio, al regno delle fiabe raccontate e da raccontare, all’Eden che ognuno di noi vagheggia pensando alla stagione di caccia prossima ventura. Tutti gli anni vorremmo che qualcosa funzionasse meglio rispetto a quelli precedenti, magari immaginando un calendario più vario, più lungo, più consono alla reale situazione della fauna e dell’ambiente, o ancora una differente organizzazione dei vincoli territoriali della nostra zona. Nella realtà dei fatti, invece, tutto rimane come e peggio di prima. Siamo costretti ad aprire la caccia con un incomprensibile mese di ritardo, e, unico caso al mondo, a chiuderla nel cuore dell’inverno, arrabbattandoci goffi a seguire normative da Settimana Enigmistica. Ingoiamo aria e veleno – “..solo veleno!” risponderebbe il Principe – quando veniamo a conoscenza del come in Germania o in Gran Bretagna si cacci tutto l’anno, del perché in Francia si possa farlo almeno quattro mesi più che qui, di quanto poco, rispetto a noi tartassati, costi farlo nel nord Europa, dove il reddito medio è doppio del nostro e la selvaggina riempie il diario dei sogni più arditi. Siamo qui con i nostri fagiani contati, con il fringuello un anno sì e due no, con regolamenti regionali che hanno oltrepassato di gran lunga il limite stabilito dal ridicolo. Siamo costretti a far le corse per il posto come se fossimo al parcheggio dello stadio; ad affannarci tutti sul medesimo ettaro di terreno e a rinunciare progressivamente ogni anno di più a quel brandello di piacere, germinato in noi da pulsioni ataviche e naturali. Siamo gli ultimi romantici, illusi di essere quegli uomini liberi che nei fatti da tempo non siamo più. Il territorio, pur essendo in realtà ricco e vario, è stato cartellato senza pietà impedendoci la giusta, doverosa diluizione; la selvaggina dicono che scarseggi, anche se la migratoria passa sempre con abbondanza ed i cinghiali fra poco potremo esportarli in Cina.
La legge che ci regola è un capolavoro di prevaricazione, proprio nella terra che ha inventato il Diritto: il cormorano appesta le nostre acque? Guai a toccarlo. I gabbiani moltiplicano le proprie colonie dove non si dovrebbe nemmeno avvicinare, facendo scomparire la fauna locale? Si rischia meno a sparare alla suocera che ad abbatterne uno. La volpe poi, chissà perché sta diventando intoccabile. Il compendio potrebbe andare avanti per pagine intere, confermando quanto la caccia in Italia sia ammalata, sofferente a causa dei virus pestiferi dell’ideologia degli altri, ma anche del nostro atteggiamento.
Gli attacchi stantii da parte della galassia sedicente “ambientalista” ormai ideologicamente sconfitta, hanno portato il popolo d’Artemide all’insicurezza, alla perdita di credibilità, allo smarrimento della coscienza dei propri valori, ma anche alla caprina pervicacia a reagire alla prepotenza nel modo sbagliato: o in modo becero, o chinando il capo. L’orgoglio è come una pozione alchemica dall’equilibrio variabile, preparata da un mago beffardo: se ne beviamo troppa diventiamo arroganti, se troppo poca saremo sempre dei succubi affogati nei sensi di colpa. Esiste una cura? Sicuro: noi stessi.
Dobbiamo cambiare. Se occorre istruiamoci di più, sforziamoci d’essere educati in grado ancora maggiore verso gli altri e verso la campagna che frequentiamo, e ritroveremo così quell’oncia di orgoglio con cui desiderare di meglio ed essere ascoltati e rispettati in tutte le sedi. Cammineremo a testa alta, come si diceva delle famiglie per bene d’una volta, e ci faremo valere esternando, protestando, scendendo in piazza con la sacrosanta indignazione delle persone che non hanno nulla da nascondere e meno ancora da sentirsi rimproverare.
E così, liberi dalla paura di pretendere, potremo calare il secchio nel pozzo dei desideri e tirarlo su pieno di tutto quel che ci occorre, per rivendicare il nostro antico diritto ad essere ancora cacciatori.





