L’emozione di stringere l’artiglio di un’aquila usato come manico di pugnale si dissolve in quella di imbracciare un Winchester originale del 1892, e ancora di accarezzare il mantello di un puma cacciato con archi e frecce in una pietraia assolata dell’ovest. Avere la possibilità di toccare un copricapo adorno di corna di bisonte appartenuto ad un capo tribù delle Grandi Pianure funziona sui miei sensi come se mi
fossi all’istante imbarcato su una macchina del tempo, e il brivido di farmi scorrere sui capelli il filo brunito di un tomahawk è pari solo a quello di far scivolare fra le dita pochi grammi di terra del Little Big Horn.
“Ci potrebbe essere ancora qualche molecola di Cavallo Pazzo o del generale Custer..”, ammonisce Sergio Susani sorridendo.
Già. Questo è stato anche il mio primo pensiero quando ho percepito la vibrazione magica della connessione temporale, la stessa che emette bagliori misteriosi ovunque io giri lo sguardo. Provo ad indovinare quanto grosso poteva essere quel grizzly dai cui terribili unghioni è stata realizzato una collana degna di un film di hollywood; immagino come in una visione i cacciatori sulla pista dell’orso, la sua levata, alto come un albero e ruggente come un drago, le frecce che saettano, la reazione della belva: forse qualcuno è
morto per catturarlo, ma di certo la sua pelliccia e la sua carne hanno alleviato le sofferenze di donne e bambini sotto la sferza di un inverno, chissà quando e chissà dove, laggiù fra le Montagne Rocciose. Rientro in me. Sono qui per lavoro, oltre che piacere. “Per abbattere un grizzly di certo si servivano di archi molto grandi e potenti, ma, come facevano, ad esempio, a maneggiare simili armi nella caccia al bisonte fatta da cavallo?”
Sergio Susani mi risponde prendendo in mano un corno simile a quello di un muflone: “Per cacciare i bisonti da cavallo, i pellerossa delle pianure usavano il corno della bighorn sheep, una pecora selvatica molto grande. Le corna venivano messe a sobbollire in una sorgente d’acqua calda per ammorbidirle e poterle lavorare. Dopo un certo tempo, da entrambe le corna veniva ritagliata una striscia centrale che ne seguiva la lunghezza intera. Le due parti ricavate venivano poi unite con una colla dando origine ad un arco molto corto ed estremamente potente. In questo modo l’arco pur essendo maneggevole anche da cavallo, rimaneva assolutamente micidiale sul bisonte. Malgrado la fase preparatoria nell’acqua calda, il corno era comunque molto duro da lavorare. L’efficacia però, valeva ogni sforzo..”









