Iniziammo a battere il campo e le due cagnine si produssero in lunghe esplorazioni a buona velocità.
“Bella quella…che animale magnifico….oddio, sono tutt’e due belle, non c’è che dire!” iniziò a chiosare l’amico dilungandosi in descrizioni, paragoni e giudizi comparati sulle mie pointerine.
“Si, sono belle.” risposi laconico, attento al fatto che Eva si stava accertando di un effluvio, preludendo ad una bella filata.
“ E poi che lavoro che han fatto su quel fagiano. Sa, anch’io avevo il pointer tanti anni fa….eh si…che razza che è, ma ora, sa, ho superato i sessanta, e chi li reggerebbe…poi sa, io caccio sempre solo.. Però non è detta l’ultima, ho ancora le
gambe buone anche se il medico mi ha detto di stare attento, perché deve sapere che ho avuto un’angina tre anni fa. Stavo per tirare il calzino, sa? Eddìe se stavo per tirarlo….” . Adesso iniziavo a capire: la diffidenza di prima mi stava avvertendo sul personaggio con cui avrei avuto a che fare: si trattava di un commarello, una fastidiosissima, anche se non pericolosa, specie artemidea.
“Ascolti…stiamo attenti ai cani..Guardi! Sono in ferma!” risposi con un’ombra d’irritazione. Nel tempo necessario per arrivare a servire le pointer, il compagnone non poté fare a meno di raccontarmi come in quel campo aveva visto bazzicare la lepre, ma non aveva fatto in tempo a tiragli perché si era dimenticato di togliere la sicura, proprio come quell’altra volta che gli passarono sul capo le pavoncelle, che come le cucinava la sua povera nonna.. Ero troppo preso dalla ferma per dare peso a quel gorgoglìo di chiacchiere, ma la stizza cominciò a far capolino. Le cagne levarono una quaglia e le sparai, abbattendola facilmente. Subito il nostro: “Bel tiro! Eh cavolo, con una doppietta così è un piacere ..Cos’è una Beretta? No, non mi pare, perché ha la bascula un po’ bassa e, mi pare il mirino sia ottonato..”
“E’ una Bernardelli.” tagliai corto, iniziando ad intuire perché a caccia era sempre da solo. Riprendemmo a percorrere il campo e lui inesorabilmente riattaccò: suo figlio studiava ingegneria a Milano, che è difficile perché i piani di studio sono in una certa maniera, mica come qui da noi; la figlia più grande aveva sposato un direttore di banca di Sansepolcro che però non andava a caccia anche se mangiava la selvaggina perché suo padre era stato cacciatore, e che poi era stato trasferito a Roma ed allora, siccome hanno tre bambini che adorano il nonno, lui era costretto a spostarsi ogni mese nella capitale per fargli visita.
I demoni dell’ira mi sibilarono che il genero era scappato per non averlo tra le scatole. Dicevano il vero, ma cercai d’ignorarli ed implorai una grazia in cambio di un fioretto.
Per trenta, quaranta secondi, mi parve pare che l’Ufficio preposto avesse accolto il mio grido di dolore. Poi invece, senza pietà, il commarello ricominciò. Compresi che devo sbrigarmela da solo e tentai una carta: “Le cagne stanno arrivando ai granturchi: dividiamoci, così lei batte un lato ed io un altro. Tiriamo solo in alto e davanti o dietro a noi, va bene?” Per dirmi che era d’accordo, mi sciorinò tutta la casistica strategica su come affrontare un campo di granturchi, retaggio dell’esperienza fatta con il suo povero babbo che gliene aveva insegnate di cose, non come ora che i genitori aprono solo il borsellino e basta, e i ragazzi non li puoi nemmeno rimproverare, e il rispetto non sanno cos’è…
Ero in apnea. Sembravamo Al e Franz di Zelig. Gli avrei sparato, ma mi trattenne il pensiero della famiglia…
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