Accompagnato dal volenteroso trescare di Antea, risalgo la pendice ombrosa di un piccolo rilievo, incassato fra altri due più alti come un capobanda in mezzo a due sgherri.
Sinceramente, a me il posto piace poco. E’ ferocemente faticoso da percorrere data la sua pendenza da alta quota, e nello stesso tempo
il fitto degli alberi, con quel sovrapporsi di tronchi che scompaiono e riappaiono come ragazzine giocose, mi provoca una sensazione vagamente claustrofobica. Ormai da troppi anni sono abituato agli spazi aperti della Chiana, ed anche se non posso fare a meno di rispondere all’annuale richiamo della regina che mi ricorda con puntualità le mie origini calabre ed i bei tempi, quando le tributavo una corte molto più fervorosa di quanto ormai non faccia, rifletto sull’inevitabile verità che per tutto vi sia un momento di passione ed uno di assopimento. Ma è altrettanto vero che i grandi amori sono divinamente destinati a non morire mai del tutto, a non lasciar spegnere la fiamma, a riattizzarsi anzi, quando il vento tiepido della nostalgia ne riaccarezza le braci vive, nascoste sotto la cenere del tempo. Ed allora eccomi ad inseguirla ancora come quando lei era per me una mirabile dulcinea da impalmare ed io un giovane cavaliere ardimentoso con il sangue ribollente di desiderio.
L’anziana cagna non la pensa come me, almeno a giudicare dalle apparenze. Non sembra per nulla subire l’angustia del passaggio dalle grandi pianure a quel meandro odoroso, ed entra fra i sipari di legno seguendo il filo logico che parte da suo naso raffinato e arriva fino al cervello trasformandosi prima ragionamento, poi in strategia, infine in simbiosi con un ambiente che ci invita a penetrare sempre più nelle
profondità dei suoi misteri, fagocitandoci come un mostro lento e vorace.
La vedo scomparire dietro alcuni cespugli spinosi e sento il suo campano allontanarsi quasi al limite dell’udito; il ritmo della sinfonia metallica si abbassa, rallenta, a tratti si rompe in note isolate, ma non mi riesce di percepirlo davvero immobile. Potrebbe essere un fagiano che sta pedinando, mi dico, istigandomi a raggiungere la cagna senza perdere il contatto con il suono del batacchio di ferro, o forse la passata d’una lepre scalatrice, esiliata fin quassù dalle continue canee che risuonano cinquecento metri più in basso. Avanzo reggendo la doppietta con tutt’e due le mani. Davanti a me scorgo un movimento basso e veloce; incanno velocemente e vedo una coda rosso scuro che si muove fra le frasche come il periscopio d’un sommergibile. Una bella volpe si allontana, disturbata dalla pointer che ha violato la sua privatezza nella foresta. Nemmeno si accorge della mia presenza, ed io riabbasso il fucile e la guardo andar via con quella caratteristica frettolosa tranquillità che ne contraddistingue sempre l’atteggiamento. Sorrido. Ci mancherebbe solo che mi mettessi a tirare alle volpi cacciando con il pointer, adesso.
A caccia: frutti di bosco…
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