Il camino continuava a ingoiare legna sputando calore nella stanza, e i barbagli delle fiamme guizzanti riflettevano il castagno del vecchio tavolo. Il vecchio aspirava pian piano il sapore del fumo da una pipa liscia e bombata, mentre le volute gli s’avvolgevano alle rughe della fronte.Il giovane gli sedeva accanto, e spostava lo sguardo dalla danza del fuoco agli occhi del vecchio, col quale condivideva alcuni angoli del viso allungato. Aveva appena chiesto al nonno com’era stata la sua prima volta a caccia di cinghiali, nella Maremma dei primi del secolo che ai suoi occhi di novello nembrotte appariva ammantata da una coltre leggendaria. Benvenuto, il nonno, era stato un grande cacciatore, e perfino un bracconiere inafferrabile; aveva molte storie da raccontare, e uno scrigno di ricordi uno più prezioso dell’altro.
“S’ha da cominciare dal primo principio. Devi sapere che col mi’ babbo ogni anno verso la metà d’ottobre si lasciava la montagna e a piedi s’andava in Maremma, giù sotto Orbetello. Ci si fermava alla casetta dove il mi vecchio esercitava il mestiere di fabbro, di carraio e di maniscalco. Il lavoro non mancava mai e siccome, non fo per dire, il fatto suo lo conosceva bene, venivano da noi persino dal paese, Avevo quindici anni ed era già la seconda volta che mi trovavo in Maremma. A caccia il babbo non andava, perchè il lavoro non gli dava tempo, poi il continuo guardare il fuoco gli aveva indebolito la vista.
Io lavoravo di mazza e di martello e se non avevo ancora appreso completamente il mestiere, certo ero di grande aiuto. Checco, il mio fratello, era il prim’anno che veniva. Spesso lo pigliava il malumore perché ripensava alla su’ mamma e ai su’ monti. Questi pensieri qualche volta lo facevano rimanere incantato durante il lavoro. Allora non c’erano Cristi: sì buscava cerca legnate dal babbo che levavano il pelo. Era il modo di fare del nostro genitore davanti al quale si tremava come foglie. Accanto alla nostra c’era la casetta della dispensa dove abitavano marito e moglie con un branco di figlioli da far paura. La malaria li aveva tutti presi. Non c’era nessuno che non battesse i denti dalla febbre. Accanto alla nostra c’era la casetta della dispensa dove abitavano marito e moglie con un branco di figlioli da fare paura. La malaria li aveva presi tutti. Non c’era nessuno che non battesse i denti dalla febbre.
Alla macchia erano al lavoro un centinaio di compagnie fra tagliatori e carbonai. Tutta quella gente creava il daffare tanto per noi che per il dispensiere. Si guadagnava benino, ma si lavorava da cani. La domenica s’era stanchi, ci si levava un po’ più tardi dei giorni di lavoro, ma alla messa non ci si andava, perchè la strada per arrivare alla Chiesa era lunga, poi il mi babbo coi preti non andava tanto d’accordo.
In montagna avevo già ammazzata la prima lepre da un pezzo, perciò sentivo già nel sangue una passione sfrenata per la caccia. In Maremma era un altro affare, non c’era nemmeno da pensarci d’andare a caccia tanto era il lavoro che ci teneva occupati. Se mi fossi allontanato alla chetichella sarebbero certo piovute legnate da orbi. Il fucile non l’avevo. C’era soltanto quello del babbo che teneva attaccato a un chiodo dentro la casetta con tanto di stoppa fra i cani e i luminelli. Quando la sera cavate le scarpe mi sdraiavo nella rapazzola, il mio sguardo girava per la stanza e all’incerto lume dello stoppino a vedere quel fucile inoperoso mi si stringeva il cuore.
Invidiavo i ricchi, non per i loro soldi, ma perchè potevano andare a caccia quando volevano. Spesso vedevo arrivare alla dispensa dei cacciatori, e se avevo un momento libero stavo incantato a sentire i loro racconti. Parlavano sempre di caccia grossa, come se per loro ammazzare un capriolo o un cignale fosse roba da ridere. Tutti chi più chi meno ne avevano cavati dal forteto. Uno di loro vedendomi attento al racconto ( stavo proprio senza rifiatare ) , mi domandò se ero mai stato a caccia grossa. Diventai rosso come un gambero dalla vergogna di dover confessare che non c’ero mai stato.
Anche i Nessi, che facevano carbone alla macchia, venivano ogni tanto alla dispensa. Erano padre e figlio e ogni volta, sull’imbrunire, arrivavano carichi di certi cignali che passavano il quintale. Una volta mi avvicinai per vedere. Mi mandarono via come fossi stato un cane tignoso. Il Nessi giovane fece anche il gesto di appiccicarmi una legnata con la palanga che aveva adoperato pel trasporto dell’animale morto. Come facevano quei carbonai ad ammazzare cignali lo seppi dal mì babbo. I Nessi eran tenditori di schioppi. Facevano i carbonai per scusa, Ogni stagione ammazzavano una ventina di cignali ricavandoci un buon guadagno. Avrei voluto imparare a tendere anch’io benchè capissi che ammazzare un cignale a caccia fosse più attraente. La Provvidenza qualche volta si rammenta anche dei poveri. Un sabato mattina, venne alla casetta il Pietracci, un guardia di Capalbio, per avvertirci che la domenica a buon ora ci sarebbe stata cacciarella. Il mi’ vecchio era di buon umore e decise che ci saremmo andati. Partimmo che era notte fonda, io portavo la fiasca e una bisaccia con la roba da mangiare. Il babbo col suo fucile alla spalla pareva ringiovanito. Al rialto erano adunati più di cento uomini, quasi tutti col fucile. I cani li teneva il Ghinelli tutto vestito di cuoio. Erano in tutti una trentina che ringhiavano e cercavan di azzufarsi per quanto fossero legati a coppia. Il capocaccia che lo chiamavan Gogo era tarchiato e muscoloso, con un pinzo da capra che pareva un becco.
Stavano attorno a un gran fuoco di ramagli chi in piedi chi a sedere sui garetti stendendo le mani aperte verso la fiamma di tanto in tanto.
Stavo in disparte godendomi la bella veduta senza perdere un ette di quel che dicevano. Arrivarono a cavallo i Signori, erano una diecina. Scesero fra noi, e mentre tutti col cappello in mano li salutavano, Gogo prese gli accordi col padrone.
C’incamminammo per gli stradelli del forteto. Il mio babbo andò coi cacciatori, mentre io con una ventina di ragazzi seguii il canaio. Capivo che s’andava a sciogliere i cani per far dopo da braccaioli. Ci fermammo in fondo al vallone ad aspettare il sono della corna. Finalmente su a mezza costa, verso mancina, la corna sonò a lungo interrompendosi e ricominciando in tre volte. I cani capirono l’antifona e non si reggevano più. S’urlava a perdifiato per tenerli fermi mentre in mezzo a quel bercìo gli si dava la via. In un baleno spariron nel forteto. Il Ghinelli fece distendere a ventaglio per lo stradello gli altri ragazzi dando ordine che facessero tutto il baccano possibile. Io e un altro lo seguimmo dentro la macchia. Entrammo nel forteto come si poteva. Qualche vecchia piazza da carbonaio che s’incontrava nell’avanzare ci dava modo di passare alla meno peggio. I braccaioli lasciati allo stradello avevano cominciato a berciare ed a sbatacchiare certe bombole di latta che qualcuno aveva portato. I cani sparpagliati da tutte le parti avevano già ritti vari animali. Tutto il costone pareva un inferno, le canizze s’incrociavano per ogni verso, ma gli animali non accennavano a passare le poste. Il Ghinelli si sgolava, tirava schioppettate in aria per impaurire i cignali e aizzare i cani. Noi due si aiutava a far rumore come si poteva. Alle poste avevano già tirato tre volte, due botte sole e una coppiola ; ma ancora parecchi cani eran dentro assieme agli animali grossi. Ad un tratto verso di noi si fece sentire un fruscìo spaventoso, mentre dietro, i cani, sei o sette, canizzavano in pieno. S’era a vento cattivo, l’animale avendoci sentito si fermò, grugnì un momento e torno indietro azzuffandosi coi cani che lo rincorrevano. Noi si berciava tutti ma la lotta avvenne rapida e furibonda. Vidi due volte sopra gli scopi, dei cani a pancia all’aria che guaivano lamentosamente. Poi si sentì stridere, segno certo che quelli scampati avevano preso qualche porcastro. Il grosso doveva essere una troia col maschio e la figliata che li seguiva. Gli stridii aumentavano fra il ringhiare furibondo dei cani. “Ragazzo fatti sotto..” disse il Ghinelli “ ..io non posso passare perchè sono più grosso di te, il fucile mi dà noia. L’hai il coltello?”. Alla risposta affermativa seguii il suo cenno che mi diceva d’andare. Mi cacciai carponi tra i lecci, le sughere e le marruche. Benchè mi strappassero i panni e da più parte facessi sangue arrivai in un lampo nel posto della lotta. La macchia era intorno tutta acciaccata. Due cani mezzo sventrati si leccavano le spaventose ferite, mentre un po’ più avanti altri tre erano alle prese con due porcastri. Questi si dibattevano e strillavano come ossessi, ma i cani li tenevan per le orecchie dandogli scossoni per tutti i versi. Appena mi videro si rincorarono riuscendo in un ultimo sforzo a buttare a gamba all’aria il primo porcastro. Non persi un istante, fui sopra la mischia e il mio coltello sparì nella gola dell’animale. I due cani che lottavano, visto che la loro bestia era in mio possesso, si lanciarono contro il secondo porcastro in aiuto dell’altro cane che con quello lottava. Di fronte a tanti nemici il povero cignaletto faceva pietà, ma nonostante questo, ormai inebriato del sangue, squarciai la gola a anche a quello. Quando riapparvi al Ghinelli trascinando dietro i due porcastri morti ero tutto imbrattato di sangue ed in più punti il mio vestito cadeva a brandelli. Il canaio non mi disse granchè, si contentò appena di farmi un sorriso, poi, lasciato quell’altro ragazzo a guardia dei morti, ripigliammo il cammino su per la macchia.

La storia che avete letto, quella raccontata da Benvenuto, l’ho tratta da un piccolo, introvabile libro “Benvenuto, storie di caccia”, edito a Firenze nei primi anni trenta del secolo scorso da Felice Le Monnier, ed opera di un tal Giovanni Ugolini. Chi sia, francamente non lo so: nessuna parentela col grande Luigi, a quel che mi consta, e letterariamente, difatti, nemmeno nessuna possibilità di accostamento. Ho voluto mantenere il testo originale del racconto ( ovviamente l’introduzione e l’epilogo sono miei) perchè, pur non essendo granchè dal punto di vista dello stile mi ha colpito la godibile genuinità, vagamente macchiaiola, dell’autore nel narrare le vicende. E’ una prosa umile, popolare, senza pretese e senza esercizi di stile. Forse per questo però, mantiene tutto quel sapore di vita vissuta, che non sempre è facile gustare quando si legge di caccia, di cani e di cacciatori
Alle poste avevan tirato altre sei schioppettate ed ormai la prima braccata era alla fine, perciò andammo senz’altro al luogo del rialto.
I cacciatori eran disposti tutti in cerchio nella radura, mentre nel mezzo Gogo aveva messi in fila gli animali secondo la grandezza. Eran quattro cignali grossi, due piccoli e una volpe. Il cerchio si moveva tra un sommesso parlottare che si faceva più rumoroso quando il Capocaccia indicava ove le palle avevano colpito il bersaglio. Il padrone, che non aveva tirato, volle conoscere quei cacciatori più fortunati di lui. Trasalii come se mi avessero dato un colpo nelle reni quando intesi Gogo che diceva al mio babbo: “ Caro fabbro, hai lasciato scappare il maschio; peccato perchè era l’animale più grosso. Se gli mettevi una palla nella testa rimaneva sul posto; ora, così impanciato, non si ritroverà di certo e se i cani s’imbattono nella sua passata ne farà un macello!”
Dunque il mio babbo aveva spadellato. Eppure non mi potevo capacitare, perchè sapevo che tirava bene. Forse la vista indebolita era la ragione del suo sbaglio. Intanto giunsero i miei due porcastri e quando il Ghinelli ebbe raccontato al padrone come li avevo ammazzati, questi mi mise una mano sulla spalla dicendomi che mi ero comportato da esperto braccaiolo. Quell’elogio alleggerì la malinconia che avevo per la padella del babbo. Rimanemmo a vederli partire per la seconda braccata alla quale il mio vecchio disse di non poter restare, perchè aveva da camminare un pezzo per arrivare a casa prima di notte. Quando fummo soli il babbo sfogò tutta la sua rabbia: “Sai, Benvenuto, il cignale l’ho visto bene fin dal principio; ma non gli potevo tirare allora perchè mi dava noia la posta di mancina. L’ho lasciato passare, ma quando gli ho tirato era un po’ infrascato dagli scopi, ma sta certo che la palla l’ha preso nella spalla dove miravo. Ha fatto un gran spaglio dopo la botta, ma l’ho sentito riprendere per la macchia. Era grosso come una balla di carbone e siccome aveva dietro un cane solo è certo che correrà poco. Gogo ha detto che l’ho impanciato e che non c’è più nulla da fare. Invece sta’ sicuro che lontano non è andato. Il cane che aveva dietro era quello di Buzzo delle ferrovie, un bon cane, che se s’accorge dell’animale in cattivo stato non lo lascia di certo.”
Andammo alla posta dove il cignale era passato. Nel posto della schioppettata si vedeva un gran tronchìo di rami e spruzzi di sangue da ogni parte. Il mio babbo, osservando tutto questo, diceva che se lo avesse impanciato il sangue sarebbe meno e più basso. “Gli ho tirato in cagnesco e la palla entrata nella spalla è uscita dal prosciutto. Poco lontano dev’essere, ma per entrare son dolori con la macchia così fitta.”. Restò un momento sopra pensiero, mi guardò un attimo e mi disse: “Tu passi meglio di me, segui le tracce del sangue e se riesci a ritrovare la bestia mi chiami che ti verrò in aiuto anche a costo di strapparmi tutto il vestito!”. Si cavò il fucile dalla spalla, mise in sicura i cani e me lo dette avvertendomi di non incanalzare altro che se avessi dovuto tirare.
Quando arrivò il mio babbo mi abbracciò arcicontento. La sua palla stava al posto, un po’ più indietro della spalla, ma era uscita dal prosciutto troncando la coscia. La bestia, un maschio enorme, dalle zanne lunghe otto dita che avrebbero sbranato un toro, era lì stecchita. Per tornare allo stradello, con l’animale impiegammo quattro ore avendo dovuto aprir la strada con la roncola.
Quando la sera Gogo ci trovò lì ad aspettarlo restò di stucco dovendo riconoscere che s’era sbagliato. Il padrone volle saper tutto per filo e per segno concludendo col rallegrarsi con me e col regalarci il cignale che ci mandò casa col carretto..”
La pipa era spenta, oramai; ed anche il fuoco s’era stancato di danzare. Il giovane, in silenzio, si divertiva a indovinare fra le braci figure di cani e di cinghiali, come quelli che il racconto di suo nonno era riuscito ad evocare, e fissava il lento disfarsi di un tocchetto di ramo annerito. Nonno Benvenuto si versò da bere, mandò giù l’ultimo sorso di quel vino rosso e uvoso, poi poggiò una mano sulla spalla del ragazzo, e lentamente s’alzò per andare a letto.






